preferisco correre


Sul tartan

 

L’ultima volta che le mie scarpe da corsa hanno incontrato il tartan di una pista di atletica per una gara di campionato fu tantissimi anni fa. Ero adolescente. Poi a fine settembre di quest’anno ho deciso di partecipare a una gara di campionato regionale e mi sono ricordata di quella strana sensazione che la pista mi provoca. A lungo ho allontanato la pista dal mio sguardo. Non tanto perché poco affascinante, tutt’altro, quanto per quel carico emotivo che mi ha sempre schiacciata e per tanti anni mi ha tenuta lontana dai campi di atletica.

Così quando sono tornata a correre ho scelto prima la strada, poi quasi contemporaneamente i cross, che avevo corso quando ancora si chiamavano corse campestri. Con il cross avevo un conto aperto, da tanto tempo. Avevo 13 o 14 anni, era un campionato italiano, ero prima, scivolai all’ultima curva, persi una scarpa e persi anche la vittoria. Così quest’anno dopo averne corsi tanti mi sono iscritta ai Campionati Italiani Master e ho vinto. Una bella cosa, insomma. Ma la pista…

Luoghi magici ma anche palcoscenici spietati. “Troppo in vista” per la mia ingombrante insicurezza. Che poi l’atletica sta lì, soprattutto quella giovanile. Eppure… niente, bloccata.

Vista già da lontano, la pista mi terrorizza. Ma eccomi qui, a correre un 5000. È anche questo un Campionato Italiano Master. Appoggio il piede sul tartan e mi sale l’ansia. Sono alla partenza, sulla linea dei 200. “Ai vostri posti”… penso come fare a raggiungere la prima corsia senza cadere e far cadere le avversarie. Parto davanti, mi aspetto che qualcosa succeda, rimango davanti. Lo speaker commenta la mia gara e mi ricorda che posso migliorare il mio personale. La sensazione è di correre pesante, che i 12 giri e mezzo siano in realtà 50, e io sia contratta per la tensione.

Suona la campanella dell’ultimo giro. Sono ancora davanti e taglio il traguardo per prima.

Sta per finire anche questa piccola follia. Ed è anche un bel finale. La pista mi ha sempre fatto paura. Da ragazza sui campi di atletica vedevo solo ragazze più belle di me, più disinvolte di me, con più muscoli di me. Non avevo abbastanza coraggio per affrontarla. E l’ansia mi tormentava fino a farmi rinunciare.

Oggi ero lì, in pista. E poi in giro per Arezzo con la medaglia d’oro al collo. Tanti anni dopo.


Zia, sei ripetitiva

arrivo stratorino

In questi mesi molte persone mi hanno chiesto come mai non ho più scritto nulla sul blog.

L’idea del blog è nata per dar voce alle mie emozioni e condividerle con altri, si è sviluppata in un periodo molto difficile della mia vita e poi ha preso forma un po’ per volta.

Ho raccontato di me, della malattia, delle mie preoccupazioni, dei miei lutti, delle mie esperienze, di mio marito, della mia famiglia, delle mie amicizie, delle mie gioie, dei miei piccoli traguardi quotidiani. Anche dei miei successi.

L’ho fatto attraverso il racconto delle mie corse, perché lì dentro c’è un po’ tutto. La corsa è il mio contenitore di emozioni. E anche il mio traduttore. È una sorta di elaboratore di sentimenti che, dopo un paio di chilometri dall’avvio, ne definisce i contorni e ne riduce il peso.

Non sono però in grado di scrivere del significato della corsa in generale, non so elaborare alcuna filosofia, costruire spessore su di essa. Non mi viene alcuna idea originale a questo proposito.

So che negli ultimi anni, ogni qualvolta mi sia trovata in difficoltà, la corsa mi ha aiutato molto. Anche quando mi sono sentita particolarmente felice. È stata al contempo risolutiva e celebrativa. 

Molte delle cose che ho raccontato, parlando di corsa, non le avrei raccontate a nessuno, neppure alla mia famiglia. È stata un tramite perfetto.

E così il blog è discontinuo come le mie emozioni, non ha certezze, dogmi, teorie assolute. Rimangono le corse e i sentimenti. Rimane il tentativo, spesso fallimentare, di non essere ripetitiva e noiosa (come dicono i miei nipoti quando racconto loro delle gare). Rimane la voglia di condividere.

In questi mesi ho continuato a correre e ho anche vinto molto.

Ho corso una gara che trent’anni fa ha corso mio papà. Ho corso la Stratorino. Quando la corse lui, io ero un’adolescente arrabbiata, incapace di chiedergli com’era andata.

Mio papà ha desiderato per me una carriera da atleta, non andò così. Ma so che è contento lo stesso. Ho dedicato la mia vittoria a lui. E lui ha potuto leggerlo sul giornale.

Ogni volta che gareggio e che taglio il traguardo mi sembra che il cuore non solo batta più forte per lo sforzo, ma mi ricordi le cose importanti. Avrà a che fare con la fatica.

“Un passo dietro l’altro”, però, rimane l’immagine della corsa che preferisco.

– Zia, sei ripetitiva.
– Lo so, ragazzi. Adesso parliamo di altro.


Battere le mani e perdere la voce

© gabriella rastello

Domenica si è tenuta la prima tappa della Maratona Reale 2019 che ha coinciso anche con la diciassettesima edizione della storica “TuttaDritta”. E così ho corso.

È stata una gara difficile, in realtà non dovrebbe esserlo di per sé, ma domenica invece ho sofferto molto per colpa di un mal di stomaco che mi ha tolto il respiro, rallentato l’andatura e ha rovinato un po’ l’entusiasmo per una gara affascinante. Tutto normale, può succedere. Si soffre, si va avanti e si arriva al traguardo comunque.

Il tifo è stato fondamentale. So che gran parte delle forze recuperate negli ultimi chilometri sono tornate grazie all’incoraggiamento degli amici: ho sentito l’affetto, la bontà, la stima nelle loro voci. Non è cosa scontata nella vita, come nello sport. Non posso che ringraziare tutti: gli amici lungo il percorso ed Elena che ha urlato così forte da farmi alzare la testa e arrivare al traguardo più in fretta di quello che avrei immaginato.

Il tifo è davvero una cosa importante, è così bello riceverlo e donarlo che mi stupisco ancora di come in molte occasioni non si senta l’istinto di battere le mani, incoraggiare, dire qualcosa di gentile. A mio parere richiede più sforzo esimersi dal farlo.

È vero non siamo eroi, non siamo neppure così interessanti, non facciamo cose utili, ma attraverso lo sport portiamo avanti piccoli obiettivi di vita. Certo, non importanti come le cose davvero importanti, ma pur sempre costruiti sulla fatica, l’impegno, il rispetto delle regole, il confrontarsi, il mettersi in gioco. Ci sono i fanatici, per carità, ma c’è anche dell’altro. Credo sia più inebriante soffermarsi sull’altro.

Magari si insegue un piccolo sogno, si mette in atto una strategia per superare momenti difficili, si cerca di raggiungere maggiore serenità, si condividono momenti di semplice allegria. Perché non tifare questi sforzi? Non lo so, forse è proprio difficile essere solidali con gli altri, senza mettersi in una situazione di immediato confronto. Eppure incoraggiare è un gesto così efficace, lo è nella corsa e lo è altrettanto nella vita.

A Cannes, durante la gara internazionale di triathlon, ho seguito con grandissima empatia le imprese dei partecipanti. Certo, la mia attenzione si è concentrata sulla gara di Carlo, e anche quella di Claudio e di Antonio, ma veder passare così tanti atleti impegnati seriamente a portare a termine una competizione così impegnativa spesso mi ha commosso. Molti erano professionisti, ma altrettanti erano lì neppure sicuri di finire la gara. Il tifo era per tutti ed era tanto.

A volte basta semplicemente lasciarsi andare per un attimo e far parte del gioco. Da sostenitore o da giocatore, non importa. Non dover sempre scegliere un club, difendere una posizione, anche quando non porta a nulla se non a rafforzare l’immagine di noi stessi, e solo quella. Non fidarsi di novità che potrebbero sorprenderci per qualche minuto, portarci un po’ di di leggerezza e di immaginazione.

Tifare per me è un gesto simpatico. A Cannes, anziani e bambini per qualche ora si sono divertiti a incoraggiare chi stava gareggiando, gli anziani interrotti nella loro passeggiata probabilmente hanno pensato di incontrare dei pazzi ancora poco consapevoli della vita. Osservavano la gara con il sorriso di chi la sa lunga e forse anche con un po’ di malinconia. I bambini scatenati nel loro tifo, sostenevano papà, mamme, amici, fratelli e anche atleti che non conoscevano. Chissà quali storie sono passate nelle loro teste! Quanta immaginazione!

Ricordo il tifo di ogni mia gara, dalle gare organizzate dalla mia squadra dove si trasforma in un unico abbraccio, ai cross dove il tifo non manca mai ed è di tutti e per tutti, ricordo il tifo della mia prima maratona dove Domenico, Gabry, Elena, Gina, Andrea e forse altri che dimentico mi hanno dato fiducia, quello dei maratonabili, quello dei volontari lungo i percorsi. Poi ci sono anche quelli a distanza, che valgono comunque. Di alcuni dei quali non potrei fare a meno.

Domenica ho incontrato un amico che non vedevo da anni, la cosa curiosa è che quando ci si vedeva molti anni fa di solito eravamo in un fumoso pub o in qualche locale, magari anche in tarda serata. Ci siamo incontrati tutti sudati dopo la gara, entrambi con un pettorale sulla maglia e con i calzoncini corti, non ci siamo detti nulla delle nostre prestazioni, ma ci siamo messi a ridere. Vederci così ci ha fatto ridere. Che bello! Ci siamo detti abbracciandoci.

Tifare non è da sfigati. È simpatico.


Genova …

“Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna” canta Paolo Conte.

Genova per me è il porto, il mare, quel profumo di umido e di salsedine, di vicoli che raccontano di storie vissute, quel rumore di acciaio e di barche che dondolano.

Genova non mi lascia tranquilla, mi agita e mi commuove.

Genova è tutto quello che non riusciamo a raccontare perché grandi cantautori lo hanno già fatto meglio di noi. Genova è oggi soprattutto un ponte caduto e tante vite spezzate. Genova è ferita.

Da mesi Carlo ed io avevamo voglia di andare a Genova, Carlo è cresciuto lì ed io, invece, desideravo tornarci per farci un po’ pace: ci andavo per lavoro tanti anni fa e non sono mai riuscita ad amarla fino in fondo, poi ci sono tornata a vedere qualche mostra, durante gli anni in cui non stavo bene.

Genova è intensa, credo che sia facile esserne conquistati oppure sentire il bisogno di allontanarsi.

La Mezza Maratona di Genova è stata soprattutto un pretesto per trascorrere una giornata nella città che Carlo ha più nel cuore e simbolicamente essere lì, accanto a chi ha sofferto in questi ultimi mesi, scegliere la città dei genovesi per correre e per trascorrere un po’ di tempo libero.

Non immaginavo certo una grande prestazione sportiva, gli amici podisti con più esperienza mi avevano raccontato di un percorso non facile, eppure, domenica, quei 21 chilometri e 95 metri scorrono velocemente, nonostante la fatica.

Il Porto Antico fa da cornice alla partenza e all’arrivo. Un percorso che si snoda nella prima parte nel centro storico con curve, salite e discese, prosegue in direzione Boccadasse fino a raggiungere il giro di boa, cambia direzione, punta alla sopraelevata, prosegue fino alla Lanterna e ritorno. Insomma, un bell’assaggio di Genova: dal suo interno, seguendone la lunghezza, dall’alto. Un susseguirsi di metri sovrapposti proprio come lo è la città. Correre sulla sopraelevata, nonostante il vento, mi piace tantissimo. Osservare il porto, le grandi navi, lo skyline mi coinvolge come non avrei mai creduto.

Così arrivo bene, prudente nella prima parte, mi lascio andare nella seconda, corro sulla sopraelevata e mi godo il porto dall’alto. Incrocio i maratonabili che mi sostengono con il loro tifo. Meravigliosi. E alla fine conquisto un’ottima posizione e un tempo inaspettato.

Durante la premiazione ho l’onore di stare accanto a grandi professioniste, mi sento fortunata, parlo con loro e rido con loro.

Festeggio con Carlo. Passeggio nel cuore della città vecchia, in quella pancia che turba, ma che sa di vita come i suoi vicoli.

Non avrei mai immaginato di trascorrere una giornata così intensa. Genova sorride a tutti noi, nonostante sia ferita.

Forza Genova! Non mollare!


In piedi sui pedali

arrivo della 10 km

Quando Carlo mi ha telefonato per dirmi che aveva vinto la sua categoria al Duathlon di Torino ero distesa sul divano.

– Carla, ho vinto la categoria. Sarò premiato!

– Che bello! Ma io sono a casa accidenti!

Chi mi conosce sa che troppo sole non mi fa bene. Mi va giù la pressione, mi viene mal di testa, mi disidrato rapidamente e rimango irrequieta per tutto il tempo di esposizione, forse impaurita che il melanoma torni a trovarmi o chissà per quale ragione. Sto male sul serio, insomma, o almeno quella è la percezione che ho.

Sabato 30 marzo però non potevo mancare all’appuntamento, il duathlon organizzato da Base Running. Avrei visto gareggiare non solo Carlo, ma anche molti amici: tanti compagni di squadra del triathlon che incrocio durante gli allenamenti e stimo infinitamente per la loro capacità di cimentarsi in tre sport così diversi. Arrivo al Valentino con un umore pessimo. La gara di duathlon non c’entra nulla, quello che quel giorno non riesco a gestirmi è qualcos’altro. Mi sono iscritta alla Dieci di Torino, anziché alla Mezza per paura di agitarmi troppo in una gara corsa in casa, di patire troppo il caldo e non riuscire a correre con serenità. Così ho scelto di correre la Dieci e ho lavorato per migliorarmi su quella distanza. Ho gareggiato tanto in questi ultimi mesi e ho concluso anche una Mezza con un ottimo tempo, dunque perché cercare di fare ancora meglio?

Sabato, tuttavia, una vocina continua a ricordarmi che forse in fase di iscrizione ho scelto con un po’ di pigrizia. Penso: “La solita insicura”. Sono fatta così: se credo di aver fatto la scelta meno preoccupante per me, poi mi sento anche in difetto. Nel frattempo la gara di duathlon si svolge in modo spettacolare, tifo con tutta la mia voce per gli amici in gara e ovviamente per Carlo.

Al termine della gara, saluto tutti rapidamente e rientro a casa. Durante il ritorno incontro l’ultima persona della giornata a cui posso chiedere se la scelta di rinunciare alla Mezza sia quella giusta. Per fortuna, è persona di grande esperienza sportiva e di grande umanità. Mi conosce bene e sa quanto patisca il pre-gara.

– Carla, hai fatto bene. È giusto così. Vai a casa, riposati e domani corri come sai fare tu. Andrà bene. Potrà andare molto bene.

Rientrata a casa, mi sento già più sicura, sono solo stanca. Poi la telefonata di Carlo.

– Carla, stai a casa.

– No, voglio vederti sul podio. Non fai in tempo e poi fa caldissimo.

Ho davvero pochi minuti per raggiungere il parco. Mi preparo, scendo in cortile, recupero la sua bicicletta e torno al Villaggio Santander. Pedalo velocissimo. In piedi sulla bicicletta, troppo alta per me.

Mi sento felice, felice per lui. Non ho più alcuna stanchezza. Si sciolgono anche i pensieri stupidi nella mia testa.

Nel frattempo mio fratello organizza un picnic per il compleanno di papà.

– Se corri la Dieci, fate in tempo a arrivare per il caffè.

La giornata di domenica si presenta con un bel po’ di impegni, ma l’idea mi piace. Finalmente so che inseguirò le emozioni. Lo farò con le mie insicurezze. Cercherò di andare forte e non sentire la stanchezza. È quella la mia scelta.

Domenica mattina mi sento bene. La temperatura è perfetta, l’aria è elettrizzante. L’atmosfera è quella delle grandi occasioni. Saluto Carlo ed entro in griglia. Si parte. Durante i primi chilometri capisco che posso fare una bella gara, rimango concentrata. Mi godo il percorso. Provo gioia nel correre nella mia città, sulle strade di tutti i giorni, attraverso le piazze meravigliose di Torino. Apprezzo il tifo dei compagni di squadra.

Taglio il nastro. Lo tengo tra le mani e me lo avvolgo addosso fino all’arrivo di Carlo.

Poi le risate con gli amici, la premiazione, gli incontri, la felicità del risultato condivisa con chi mi accompagna ogni giorno a far meglio. Con Carlo, senza il quale molte delle cose che mi riescono bene non sarebbero possibili.

Saliamo in macchina diretti al picnic. Con una camminata lenta raggiungiamo il prato. Guardo l’ora, siamo in tempo per il caffè. Cerco nello zaino la medaglia.

– Questa è per te, papà. Buon compleanno!

Da lassù si intravede la pianura, si intravede Torino. Sorrido. Sorrido perché quello che mi viene in mente non è la mia vittoria, ma la corsa in bicicletta, tutta d’un fiato, senza esitazione. Verso le emozioni. In piedi sui pedali.


“All runners are beautiful”

Nelle scorse settimane ho corso per due domeniche consecutive.

Sono tornata a Napoli a correre la mezza maratona, una mezza che amerò sempre per le enormi emozioni che riesce a regalarmi ogni anno. Che mi piace correre per il percorso meraviglioso, per la presenza del mare. Per Napoli, una città a cui sono ormai affezionata. Per i napoletani che accolgono i runner come star, per la cucina che diventa il vero premio al termine della gara, per i numerosi caffè che si prendono prima e dopo aver corso. E poi ancora per il Vesuvio, la pizza e le sfogliatelle, per il Cristo Velato (che mi emoziona ogni volta) per le vie del centro storico e per quel meraviglioso golfo che ti abbraccia lungo il percorso e durante le passeggiate.

Lo scorso anno ho avuto l’onore di salire sul podio come prima atleta italiana, quest’anno ho migliorato il mio personale di qualche minuto, senza aver pianificato nulla, anzi con una giornata di vigilia vissuta con un po’ di rassegnazione rispetto alla gara per il forte vento che ha caratterizzato quelle giornate. Eppure ancora una volta la mezza di Napoli ha saputo sorprendermi, anche con il suo vento che, se nella prima parte è stato un vero ostacolo, nella seconda ha aiutato tutti noi a raggiungere il traguardo con un po’ di spinta.

Siamo stati stregati da un’allegria contagiosa che ha reso questa trasferta davvero divertente. L’evento sportivo ha coinvolto l’intera città che si è fermata a applaudirci con un po’ di stupore: noi contro vento, quasi tutti troppo vestiti rispetto alla temperatura, un po’ goffi nello stile, all’inseguimento di atleti fortissimi, eleganti nella corsa e veloci come gazzelle. Siamo riusciti a vederli da vicino, lungo i chilometri a doppio senso di marcia. È stato emozionante e divertente. È stato bello.

Lo slogan della Mezza di Napoli è “All runners are beautiful”. Forse siamo tutti belli perché in quel momento abbiamo scelto di fare qualcosa per noi, qualcosa che ci piace e che ci diverte. E anche se non sorridiamo sempre, sorridono i nostri occhi, fieri di aver deciso di partecipare. E se poi non va come ci siamo immaginati, sorridiamo qualche ora dopo perché è solo una corsa e poi ce ne sarà un’altra. Per qualcuno tutto questo ha il sapore affascinante della competizione mentre per qualcun altro ha solo quello del divertimento, e dello star bene. Se poi la bellezza dei luoghi si mescola con l’impegno, la fatica, il divertimento, la gioia di chi corre, si sente aria di magia.

Alla IX miglia di Bra, gara storica di altissimo livello, i sorrisi non sono mancati e neppure l’atmosfera di una festa dello sport. Una gara su una distanza inconsueta in mezzo alla campagna con le montagne che fanno da sfondo, uno scenario opposto a quello di Napoli, ugualmente affascinante e accogliente. Una gara con la partecipazione di atleti fortissimi, dall’organizzazione impeccabile. Una gara dal sapore buono.

Ci siamo divertiti moltissimo anche lì, in una bella giornata di sole. Su quel percorso si corre con la consapevolezza di aver scelto una gara dalla storia importante. Non ho incrociato i campioni, ma i tempi hanno parlato per loro. E credo che la loro corsa sia stata un vero spettacolo.

All’arrivo ho tifato per gli amici agli ultimi metri della loro gara. Li ho trovati, in effetti, tutti belli: con i loro capelli arruffati, il sudore ovunque, le facce stanche, il gesto non sempre atletico, lo sguardo un po’ annebbiato. Qualcuno è arrivato per mano, qualcun altro ha allungato il passo appena ha appoggiato i piedi sul tappeto, c’è chi non ha sentito il tifo per eccesso di impegno e chi ha gioito platealmente per aver superato il traguardo.

Non ho visto “brutti” o forse non li ho voluti vedere. In fondo, l’unica cosa che ricerco in queste situazioni è quel qualcosa di buono che si avverte anche da fuori:  l’impegno, il rispetto, la passione, il talento (per chi ha la fortuna di averlo), l’entusiasmo, la gioia, l’amicizia, il cuore. E allora succede che anche il più stanco e sudato ti paia bello, anzi bellissimo.

 

 

 

 

 


Provaci!

scarpe-runners-2Ci sono giorni in cui non ho voglia di scrivere. E questi appena passati sono stati giorni così. Un’insidiosa influenza mi ha costretta a fermarmi per una settimana, a non far nulla, soltanto provare a dormire e ad assecondare il virus. Poi ci sono i pensieri che nella mia testa partono in modo autonomo, si prendono il loro spazio e non se ne vanno più, così è successo pensando al compleanno di mia mamma, alle brutte notizie di questi giorni e a tante altre preoccupazioni.

È proprio in quelle ore che il mio istinto in una situazione normale mi avrebbe portato fuori, a correre. Sarei stata naturalmente portata a concentrarmi sui miei piedi, sul mio battito e sui chilometri che riuscivo a percorrere. Avrei annullato dopo il primo chilometro ogni pensiero, distratta solo dal colore dell’acqua del fiume. Poi avrei guardato il calendario gare e avrei provato a immaginare le mie partecipazioni future. Avrei fatto progetti un po’ più in là, proprio come quando si scelgono le mete delle vacanze. Un rimedio per me efficace alle giornate in cui mi sento intrappolata dalla mia testa.

La corsa mi è mancata questa settimana. Sì, ammetto che mi sono anche preoccupata dello stato di forma fisica, forse un po’ compromesso, ma più di tutti mi è mancata l’aria aperta, il movimento, la volontà di distrarmi e le endorfine.

Quella fuga quotidiana che a volte è meditazione e altre volte non è nient’altro che l’immagine di un passo dietro l’altro. Sono profondamente convinta che il movimento fisico in generale sia un ottimo alleato per sconfiggere i brutti pensieri e le giornate difficili.  Per me funziona anche camminare, in realtà.

Mi sono chiesta se chi fa sport sia più coraggioso e più forte di altri. Non lo so davvero, ma non credo. Credo che anche intervistando un gran numero di atleti non riusciremo mai a conoscere tutte le motivazioni per cui si decide di fare sport, specie in età adulta. E credo che questo mistero sia uno degli elementi più affascinanti.

Corriamo per stare con gli altri, per divertirci, per metterci alla prova, per dimagrire, per aumentare la massa muscolare, per dimostrare qualcosa a qualcuno e a noi stessi. Per spezzare la noia, per sentirci in forma, per conoscere altra gente, per farci notare, per essere di buonumore, per nevrosi, per altri mille motivi. Non è solo una questione di aver tempo a disposizione.

Al di là di tutto quello che si può raccontare e fotografare con i mezzi a disposizione a me piace guardare dietro ai volti di chi sta superando una prova di sport. Mi incuriosisce quell’istante in cui la sofferenza fisica cresce. Succede qualcosa a quel punto, ne sono sicura. Si prova a resistere, a reagire, e soltanto quando davvero non si riesce più a far nient’altro finalmente si rallenta. Ma per un istante si resiste.

La corsa non è una panacea, ne sono certa, ma in fondo per qualcuno la vita è lì (come dice un mio amico). Lì c’è il mistero, la forza, il coraggio, la fragilità, la paura, la passione, i sentimenti, i sogni, la leggerezza, l’incoscienza. Non è la vita, certo. Forse è solo un ottimo antidoto o un esercizio di riordino. Non importa che cos’è. I miei pensieri con la corsa si alleggeriscono e si snodano. È già molto.

– Mi spiace, papà, non farò una bella gara domenica. Mi sento ancora debole.

– Carla, ma non importa. La corsa deve servirti a star bene.

– Ma sì! Hai ragione.

– Tu comunque provaci. Sai, a volte quando si corre si dimentica tutto e le gambe iniziano a andare da sole.

– Vero. Ci proverò.


A perdifiato sul prato

credits: Marco Prina

– Carla, fai il cross della Pellerina domenica?

– Sì, sì … mi piace quel cross!

Sul cross della Pellerina ho già scritto lo scorso anno raccontando perché sono così affezionata a quella gara, che cosa rappresenta per me e la gioia che provo nel correrla ogni anno.

Anche quest’anno è stata un’occasione bellissima di sport e di amicizia. Una prova difficile, come lo sono i cross, affrontata da tutti gli atleti al meglio delle proprie possibilità.

Molti runner non amano i cross, forse li temono, e magari non hanno tutti i torti. I cross si corrono sui prati, con andature ben più veloci a quelle a cui siamo abituati, con temperature basse e climi incerti, non serve guardare il garmin, piuttosto saper appoggiare bene i piedi e cercare di inseguire quello davanti a noi.

È uno sforzo muscolare notevole, quello che si attiva correndoli. Forse non adatto a tutti. Si è notati dai compagni di squadra, perché il percorso è ben visibile e le partenze sono suddivise per categorie. Questo significa che si ha molto tifo, ma che il pubblico è lì, vicino a te: ti parla, ti incita, ti osserva.

Credo che la regola sia correrli a perdifiato, più forte che si può, cercando di superare più avversari possibili, facendo un po’ di strategia, se è necessario.

Il cross è destabilizzante per i runner poco esperti, può trasformarsi in una bellissima esperienza oppure in un piccolo incubo. Non si hanno parametri di riferimento, le poche certezze sono legate alla distanza. Il terreno può essere invece fangoso, ghiacciato, pianeggiante o in pendenza. I più fortunati hanno ricordi di gioventù legati a questa gara, perché spesso le scuole la inseriscono nel programma di educazione fisica.

Per tutti è vedere quello che capita e soprattutto divertirsi. Provare a essere grintosi per qualche chilometro, Sentirsi un po’ fuori controllo. Trascorrere qualche ora all’aria aperta. Giocare con un percorso fatto di curve a gomito, salite e discese, sperando di non farsi male. Tornare quei ragazzi della scuola media per un giorno, ovviamente prendendo più freddo e correndo più piano.

Poi ci sono gli atleti più esperti ed è probabile che le loro motivazioni siamo ancora diverse.

Non so se i cross fanno davvero bene ai runner, oppure no. Quello che mi sembra di capire è che per chi corre è un’altra opportunità per trovare stimoli e concedersi delle piccole pazzie, compresa quella di correre su un prato, per alcuni giri, con delle scarpe che non indossiamo mai durante l’anno, le scarpe chiodate. Provare a far bene e raccogliere il tifo del pubblico.

Non avere tempo di pensare a nulla: solo correre all’inseguimento su un circuito definito da fettucce e paletti. La partenza è sempre affascinante, si parte forte, a volte troppo, ma fa parte del gioco: spesso vince l’istinto in quei primi metri ed è bello così. Poi si recupera, si rallenta, si cerca la concentrazione durante il percorso e verso il finale qualcuno prova ancora a cambiare passo, testando la propria grinta.

Sentirsi un po’ folli per un giorno insieme a molti altri.

– Come è andata? Faceva freddo?

– Solo al mattino presto, poi si stava bene.

– Sì, certo.

E sento Carlo che ride al telefono.


Il fiore d’inverno

calicantus_export_2– È bella questa composizione natalizia. Brave! Ma quei rametti gialli da dove arrivano?

– Ah sì! Papà mi ha raccontato che mamma adorava questi fiori. Nel giardino della loro amica Vanda c’è una pianta di questa specie e mamma rimaneva sempre colpita dalla fioritura in pieno inverno. Così Vanda al fiorire dei primi rami ne tagliava qualcuno da regalarle. Anche quest’anno ha fatto lo stesso ed è venuta qui.

– Sì! Mi pare si chiami Calicantus, una pianta che fiorisce d’inverno.

Luca ovviamente conosce la storia e l’origine di questo fiore, io invece tornata a casa vado a leggermi qualcosa.

Chimonanthus è un genere di piante, appartenente alla famiglia delle Calycanthaceae originario dell’Asia. Il nome viene dal greco e significa fiore d’inverno con riferimenti alla fioritura invernale di questi arbusti dalle foglie perenni o caduche”. Leggo che il calicanto produce dei piccoli fiori non molto appariscenti ma profumatissimi, viene utilizzata come pianta ornamentale per decorare i giardini, anche perché fiorisce nel periodo invernale ed è quindi in grado di sopravvivere a temperature anche molto rigide. Esistono poi alcune leggende che lo riguardano e nel linguaggio dei fiori un fascio di rami di calicanto promette a chi lo riceve un’affettuosa protezione. Simboleggia forza e tenacia nelle avversità. È il fiore che non ha paura del gelo.

Che bello ricordarsi dei fiori preferiti delle persone a cui vogliamo bene! Questo fiore doveva però essere un segreto tra due amiche di sempre, io non ne sapevo nulla. Non so neppure se rappresentasse tutto questo per loro. Però so che mia mamma ha sempre amato i fiori, vedeva nei fiori caratteristiche e qualità a cui ispirarsi. Mio papà per circa cinquant’anni a metà febbraio è salito in collina alla ricerca delle prime primule da regalarle. Le primule annunciano la primavera e lei le amava per questo. Leggeva nei fiori storie e bellezza.

Il Calicanto dai fiori poco appariscenti ma profumatissimi che resiste alle basse temperature è una bella storia.

Luca ed io uscendo dal cimitero parliamo di questo fiore. Ascolto Luca con stupore e ancora una volta sorrido: è il 26 di dicembre, c’è un bel sole. Abbiamo trascorso la giornata all’aperto. Proviamo a fuggire dalle malinconie, cercando la bellezza in un picnic con la famiglia, la serenità in un bosco e la continuità in un luogo a noi caro, su una vetta al di sopra della nebbia.

Saper fiorire d’inverno con fiori profumatissimi, forse questo incuriosiva mia mamma.

Forse non sono fiori bellissimi, ma ora mi sembra di capire perché le piacessero e perché iniziano a stare simpatici anche a me: senza particolare esigenze fioriscono e profumano, profumano tanto anche nelle fredde giornate invernali. A un nostro passaggio distratto ci ricordano di alzare lo sguardo, risollevare lo spirito e proseguire il nostro cammino con fiducia. Ci inebriano con il loro profumo e ci donano forza. Fiorire d’inverno.


Un Po di corsa

Quando sono arrivata a Torino ho sottovalutato l’energia del fiume. Avevo camminato molte volte lungo il fiume, sui suoi ponti, ma mai corso accanto ad esso. Negli ultimi anni il fiume Po è diventato un mio grande compagno di viaggio. Mi ha accompagnata durante i miei primi esaltanti allenamenti di squadra e quando mi ammalai mi tenne compagnia durante le mie passeggiate.

Il fiume mi ha sempre regalato emozioni. Vivere e correre in una città attraversata da un fiume è un grande privilegio. Sarà per questo che mi piace la “Un Po di corsa”. Quest’anno ho partecipato per la terza volta. Ricordo ogni edizione a cui ho preso parte.

Nel 2015 avevo saputo da pochi giorni della malattia, Carlo mi propose di partecipare lo stesso alla gara nonostante il cattivo umore, la preoccupazione, la paralisi mentale che ci accompagnava in quei giorni. Siamo arrivati per mano con l’applauso degli amici, nella speranza che fosse un buon stimolo per la lotta che ci attendeva. L’anno successivo stavo facendo la terapia, pesavo pochissimo e avevo poche energie. Corsi ugualmente la “Dieci”. Ricordo che di fronte al nostro amico fotografo allargai le braccia con un unico pensiero: ringraziare tutti. Mandai la foto a mia mamma per rassicurarla e raccontarle che stavo bene, nonostante tutto.

Lo scorso anno fu diverso. Quella mattina faceva freddissimo, io avevo voglia di correre forte, anzi fortissimo. Mi sentivo bene: niente più terapia e niente più farmaci. Strinsi i denti, il terreno era ghiacciato, ma poco alla volta con il tifo dalla mia parte, accelerai fino al traguardo e lo tagliai per prima.

Questa domenica il Parco del Valentino pareva vestito a festa in una giornata di luce e di vento. Una bella atmosfera, allegra e rilassata. Corro la “Dieci” e mi godo il Parco, il tifo, gli applausi, l’arrivo nel cortile del Castello.

Stiamo costeggiando il fiume, quando una runner entusiasta dice:

– ma che bello questo percorso!

– sì,  bellissimo. Fai la “Dieci” o la “Mezza”?

– la “Mezza”. vai, Carla, ti chiami così vero? Ti ho vista a Firenze.

– davvero? dai, facciamo un pezzo insieme. Tu come ti chiami?

– Lara

E insieme proseguiamo nella corsa per qualche chilometro. Poi Lara modula la sua andatura per correre la “Mezza” e vincerla.

Il fiume nel frattempo ci sorride, divertito e curioso: conosce le follie, le fantasie, i sogni, gli incubi e le paure di tutti noi che ci avviciniamo ad esso per catturare la sua forza e la sua bellezza.

Con un po’ di corsa spesso si raddrizzano le giornate quando partono storte. Con un po’ di corsa spesso si celebrano le giornate quando portano con se buone notizie. Quando si ha voglia di chiacchierare con un amico o si vuole stare soli, quando si dialoga con i pensieri. Quando si torna a giocare per qualche ora e si prova a immaginare nuove mete. Quando si cerca l’ispirazione. Quando si cade e ci si rialza.

“Un po’ di corsa” è tutto quello che ci dà forza per guardare lontano, con gratitudine, e con il desiderio di far bene.

Un Po di corsa è un nome bellissimo per una gara.