preferisco correre


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Sembra quasi tutto normale

panoramica-superga

Novembre 2016. È domenica, il ritrovo per l’allenamento è alle 8:30. Arriviamo in auto, non ho nessuna voglia di salutare, voglio restare lì, in macchina. Qualcuno sa già quello che è successo e non so bene come comportarmi. Mi chiedo perché ho scelto di correre. Sono malata e dovrei rimanere a casa a letto.

Nel gruppo, quella mattina, c’è Roby, il chirurgo. L’amico medico senza il quale tutto sarebbe stato molto più difficile. Il giorno del terribile referto, ci contatta e chiede di vedere l’istologico, parla con Carlo più volte in poche ore. Conosciamo Roberto solo di vista, la sua disponibilità ci colpisce. Non gli saremo mai abbastanza grati.

Quella matttina lo vedo avvicinarsi alla nostra auto.

– Carla, possiamo parlare un attimo?
– Si, certo.

Il terrore mi attraversa per un istante, mi darà altre brutte notizie, penso. Sorrido e attendo.

– La situazione è grave, si tratta di escludere la presenza di metastasi ai polmoni, al cervello e al fegato. Lo faremo insieme, con una TAC e una risonanza con liquido a contrasto, poi farai l’intervento e vedremo come procedere. Le cure ci sono e io sono ottimista.

Rimango immobile.

– Ma allora non muoio tra pochi mesi?
– No, Carla. Di questo sono sicuro. E comunque nella peggiore delle ipotesi possiamo contare sulla chirurgia e sulle cure.

Ci abbracciamo forte in mezzo alla piazza. I compagni di squadra ci osservano, ma non chiedono nulla. Mi sento meglio, a volte le parole di un bravo medico riescono a trasformarsi in speranza, lotta, fiducia e cambiano la percezione della malattia.

Siamo arrivati tutti, possiamo risalire in auto e spostarci al parcheggio che segna l’inizio del nostro allenamento. Ci leghiamo bene le scarpe, mettiamo e togliamo maglie, valutiamo la temperatura.

Scherziamo, come ad ogni allenamento, sulla nostra necessità di stancarci e prendere freddo.

Funziona sempre così: nessuno crede a quello che dice prima della partenza di una corsa o di un allenamento, al fatto che vorrebbe trovarsi su un divano a bere caffè o al caldo sotto le coperte. Si elencano tutte le situazioni più comode di una corsa al gelo e di prima mattina. Eppure strofinandosi le mani per il freddo si parte sempre.

Superga è la nostra meta. Non so se potrò continuare a correre nei successivi mesi, decido di provare a godermi l’allenamento in compagnia, dopo faremo pranzo tutti insieme.

È una corsa diversa, i pensieri si sincronizzano con i passi, ho tanta voglia di essere come gli altri. Il passo è nervoso e spesso mi trovo da sola: respiro, respiro profondamente come se volessi incoraggiare il mio fisico a non mollare. Credo che si possa meditare anche correndo, ripetersi dei mantra e dialogare con la propria anima e il proprio corpo. E provare a ridere, anche solo per qualche secondo. C’è sempre qualcuno che riesce a farci ridere. È una battuta, un’espressione del viso, un racconto, un imprevisto. Spesso in questi mesi ho cercato la risata anche solo per qualche minuto.

Mi volto, dietro di me vedo i miei compagni di squadra affaticati ma sorridenti, è probabile che a qualcuno sia tornato in mente che anche stare sdraiati sul divano non è poi così male e in una sola battuta abbia fatto ridere tutti. Si commentano le assurde e spesso immotivate imprese che ci vedono partecipi e si ride della propria imperfezione.

Raggiungo il piazzale della basilica, prendo fiato, incoraggio gli amici che stanno arrivando e mi metto in posa per la foto di gruppo. Sembra quasi tutto normale.

Luglio 2017. Da qualche mese corriamo in canotta e pantaloncini, fa tanto caldo, qualcuno dice che anche una birretta all’ombra potrebbe funzionare.

Rimango indietro spesso, non riesco a correre e cammino molto. Le terapie hanno debilitato il mio fisico. È il momento della foto, poi dei saluti e infine dei prossimi appuntamenti.

Rido per una battuta e mi inciampo. Si, è normale.


Spostare lo sguardo

Gennaio 2016. Il giorno di Capodanno un mio amico in viaggio in Argentina mi spedisce alcune foto bellissime. Sa che non sto bene e prova a guarirmi inviandomi scatti di bellezza. Le sue foto mi piacciono tanto. Ho sempre l’impressione che riesca a cogliere un’atmosfera, un sentimento, una sfumatura che a me sarebbero sfuggiti. Forse la magia della fotografia ha a che fare con questo.

Lui non è fotografo professionista, eppure seguire il suo sguardo mi incuriosisce, mi appassiona come se fossi alla ricerca di un segreto.

A poche settimane dalla prima operazione Carlo prenota i biglietti per una mostra a Genova a Palazzo Ducale. Prima della mostra abbiamo il tempo di fare una visita a Boccadasse, il villaggio di pescatori affacciato sul mare a pochi chilometri dal centro di Genova. È una giornata bellissima, la luce e i colori sono quelli di una tipica giornata invernale.

Lungo la passeggiata mi fermo a guardare la spiaggia con gli stabilimenti chiusi. Le cabine sono verniciate di rosso e di bianco. Un’immagine malinconica e positiva al tempo stesso. Immagino la spiaggia in estate, conquistata dai bagnanti con ombrelloni, asciugamani ed enormi borse colorate. Torno con lo sguardo verso gli spazi vuoti di un pomeriggio d’inverno al mare, chiudo gli occhi e rimango in silenzio.

Ancora oggi mi chiedo come il mio amico viaggiatore avrebbe potuto fissare con uno scatto tutto ciò che ho visto in direzione del mare quel giorno a Boccadasse. Sono certa che avrebbe visto cose diverse, altri colori, altri dettagli.

Quel giorno nel mio sguardo mancava un po’ di luce eppure fermarmi davanti ai grandi capolavori della pittura e poi poter trovare ristoro in un angolo di bellezza sul mare in qualche modo rese il mio respiro più regolare.

La bellezza credo vada sempre cercata.

Se siamo fortunati ci si presenta all’improvviso togliendoci il fiato come il sorriso di un bambino, a volte si nasconde e aspetta di essere trovata. Non importa se è diversa per ognuno di noi. Vale la pena cercarla, spostare lo sguardo e farsi sorprendere, giocare con lei fino a farne parte, farsi ispirare per immaginare nuove storie. Sentirsi intimoriti ed esclusi e poi provare a entrarci dentro con un salto coraggioso. Lei è nostra complice, sempre.

Mi è capitato tante volte, in quest’ultimo anno di non riuscire a vederla, di non cercarla, di essere arrabbiata con lei ma la bellezza sa aspettare con pazienza e prima o poi torna a trovarci. Lo sguardo si sposta di poco, i nostri occhi le sorridono e si ha voglia di afferrarla anche solo in uno scatto.


La panchina perfetta

La panchina perfetta è quella che incontri quando hai bisogno di fare una pausa.

Sulla panchina fai uno spuntino, bevi, leggi, ti confidi, ascolti, scherzi, finalmente riposi e baci anche. Ci si bacia parecchio sulla panchina.

In vacanza sull’Alpe di Siusi ho percorso un sentiero di grandissimo fascino, il sentiero della Bullaccia. Le panchine in legno rivolte verso paesaggi incantevoli mi hanno regalato la possibilità di godermi quel preciso istante in assoluta comodità. Sedersi su balconi naturali è in effetti un’esperienza da vivere con calma, rallentando il respiro e scatenando l’immaginazione.

Posizionata per permetterci di ammirare un paesaggio, al termine di una salita, quando la fame e la sete si fanno sentire, la panchina di pietra o di legno sui sentieri delle Dolomiti sembra aspettarci da tempo. È un invito a guardarsi attorno, a entrare con rispetto all’interno di un paesaggio da favola, a farsi piccoli piccoli di fronte a tanta bellezza, a rendere la camminata un momento di benessere. Sulle montagne delle Dolomiti ho trovato panchine bellissime.

Il bello della panchina è che puoi trovarla ovunque e anche quando non la si incontra bastano un prato, un masso, una spiaggia, uno scalino di asfalto per improvvisarne una.

Luogo per un breve riposo o per una lunga attesa la panchina ci corre sempre in aiuto, sia che si trovi in un parco, su un lungomare, lungo un corridoio o in un anonimo parcheggio.

Ricordo quando feci la prima TAC: dall’interno del tubo mi immaginavo Carlo seduto sulla scomoda panchina di fronte alla porta. A fargli compagnia tanta preoccupazione e tanto coraggio. Non gli ho mai chiesto a che cosa pensasse durante quegli interminabili minuti, sapevo solo che l’avrei trovato lì, fuori dalla stanza.

La panchina è spesso un momento di pensieri che si liberano. Da quel punto si osserva la vita, si guarda la gente che passa, i bambini che giocano, si ascoltano discorsi di altri, si aspetta, ci si ristora. Si ride, si fa silenzio.

Per molti sedersi su una panchina è la ricerca di una sola immagine, per altri è un respiro profondo e uno sguardo verso l’altrove.

È attesa, immaginazione, punto di incontro. È fare una sosta, da soli o in compagnia. Qualsiasi cosa si faccia ci si può sempre fermare nei pressi di una panchina e prendere fiato.