preferisco correre


Questione di passo

Mi piace all’allenarmi con il mio amico Andrea.

Durante la malattia Andrea non hai mai smesso di chiedermi di correre con lui e spesso è stato così insistente che ho corso anche quando volevo solo mettere la testa sotto il cuscino. Come si faceva negli anni ’90 quando ci si incontrava per stare in giro con gli amici, Andrea passava sotto casa mia, suonava il citofono e mi diceva di infilarmi le scarpe da corsa.

– Sono Andrea, scendi, andiamo a correre
– Sono stanca, non ne ho voglia
– Ok, ti aspetto qua. Fai con calma

Andrea è molto più forte di me. Ci siamo conosciuti qualche anno fa al parco, durante un allenamento. Abbiamo corso fianco a fianco per qualche mese, poi lui ha iniziato a correre forte, tanto forte. È stata una delle prime persone con cui ho corso quando mi sono trasferita a Torino. Da sempre rido tantissimo con lui.

Ancora oggi, dopo le terapie, mi chiede di correre, anche se è ovvio che il mio correre corrisponde al suo passeggiare. Spesso fa finta di non farcela più, ma io so che mi sta aspettando. A volte fa anche finta di soffrire tantissimo per poter rallentare e tenere il mio passo. Respira e si lamenta della fatica. Muove le braccia in modo strano, flette la schiena e ruota la testa come se non riuscisse a finire l’allenamento. Ovviamente, non è così.

Durante tutti i mesi di terapia abbiamo corso con un passo lento, un passo utile a confidarci piccole e grandi preoccupazioni. Amo il parco anche per questo: soprattutto nei mesi più freddi diventa il luogo ideale non solo per duri allenamenti ma anche per pensare, confrontarsi con gli amici, magari correndo. Aiuta a liberare il respiro spesso incastrato in ansie che ci tormentano. A trovare soluzioni. Al parco ognuno sembra cercare le proprie.

Quando camminavo spesso, con ancora il drenaggio infilato nella schiena, mi capitava di guardarmi attorno con curiosità. Incontravo sempre un signore con tanta pancia che tutto sudato tentava di correre in modo costante, non ho mai visto qualcuno faticare così tanto e ho immaginato che fosse il consiglio di un medico ad averlo portato lì. Avrei voluto fermarlo e congratularmi con lui. Incoraggiarlo a non fermarsi. Incrociavo anche un’anziana signora, magra magra, che camminava così veloce da non poterle neppure sorridere per un attimo. Lei sembrava sicura di sé e già pronta per farcela o forse stava solo cercando di scappare da qualcosa. Ogni tanto mi imbattevo in una ragazza con una felpa nera enorme che correva piano piano ascoltando musica, sembrava appartenere a un altro mondo. Mi sono chiesta molte volte quale soluzione cercassero tutti quanti, intanto provavo a trovare la mia, tra un passo e l’altro.

Una sera, poco prima di entrare in ospedale, decido di fare le ripetute con Andrea. Un modo per fingere che tutto fosse normale. Facciamo le ripetute sui 1000. Andrea ovviamente mi sta davanti, spesso si gira per controllare che io ci sia ancora, fa finta di essere stremato e corre senza allontanarsi troppo.

Siamo all’ultima ripetuta, corro più forte che posso, per la prima volta mi capita di immaginare il mio tumore. Lo vedo. È dietro alla scapola. Visualizzo quell’immagine più volte e immagino di parlare con lui, implorandolo di stare fermo. Corro forte ma sono altrove. Andrea si volta verso di me più volte, sembra preoccupato, mi guarda confuso, mi conosce abbastanza bene per capire che quella espressione sul volto non è solo stanchezza. Rallenta, mi aspetta e insieme corriamo gli ultimi 100 metri.

Concludiamo l’allenamento tutti e due molto stanchi. È buio e fa freddo. Ci appoggiamo l’uno sull’altro per riprendere fiato. Non parliamo per qualche minuto, poi Andrea mi dice:

– Perché hai corso come una pazza? Ero preoccupato, ora sei anche pallida
– Forse per sentirmi viva. Non so, sinceramente non so

Torniamo a casa camminando, in silenzio.

– Carla, domani ti suono. Facciamo un lentissimo

Salgo le scale sorridendo. Sceglieremo un passo e lo chiameremo lentissimo, penso. Sarà il nostro passo per recuperare le energie, quello che ci permetterà di ridere da stanchi e di parlare di noi. Sarà un bel passo.


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Viaggiare fa bene

Viaggiare fa bene, dice Lonely Planet. A inizio agosto salutiamo la città, carichiamo i bagagli in auto e ci prepariamo a trascorrere due settimane di vacanza in Bretagna. Abbiamo ancora un appuntamento in ospedale, si tratta solo di ritirare un esito e poi si può impostare il navigatore. L’appuntamento con l’oncologo è alle 9, sarà lui a dirci come è andata la tac, subito dopo andremo dritti verso la campagna e da lì partiremo per le vacanze. Il colloquio si fa serio da subito e dopo circa mezz’ora di conversazione il mondo torna a cascarci addosso: la tac non è pulita. Nulla di grave, ma meglio verificare con una risonanza. Il suggerimento del medico è di partire comunque.

– Cosa facciamo Carlo?
– Partiamo. Stare qui sarebbe peggio.

Raggiungiamo la costa atlantica dopo circa 10 ore di auto, facciamo tappa a Bordeaux. Siamo angosciati, tesi e molto stanchi. La città ci piace. Il giorno seguente decidiamo di visitare la Dune du Pilat. Ci arriviamo in bicicletta, senza aspettarci nulla, non siamo ancora pronti alla meraviglia, ma dopo un breve tratto a piedi ci troviamo di fronte a una quantità di sabbia da credere di essere finiti in una trappola per turisti. No, la Duna è naturale ed è straordinariamente bella.
Lì, in cima, guardando in basso verso l’oceano, pensiamo di potercela fare. Supereremo anche questa, ci diciamo. Ci rotoliamo e ci buttiamo a terra, corriamo su e giù fino allo sfinimento. Riprendiamo le bici noleggiate e torniamo a Arcachon, punto di partenza della nostra gita. Finiamo la giornata con un aperitivo, stiamo meglio, riusciamo a sentirci perfino un po’ ottimisti. Pensiamo alle prossime tappe.

Il giorno successivo proseguiamo in auto verso la Bretagna.

La prima località che visitiamo ci accoglie con il brutto tempo. Ho voglia di tornare a casa, non sono più sicura di riuscire a rilassarmi, nel frattempo ho sentito l’ospedale per fissare la risonanza ed è tornata la paura. Carlo insiste per rimanere. Rivediamo il viaggio e programmiamo le giornate, aggiungiamo tour in bici e qualche piccolo trekking. Le località che ci piacerebbe visitare sono tante e il viaggio inizia a ispirarci. Leggiamo di percorsi ciclabili e sentieri panoramici, cose da vedere e da fare, esperienze da non perdere.

Il pensiero della risonanza di controllo si allontana e noi ripartiamo ancora una volta: pedaliamo lungo la Côte Sauvage in una bellissima giornata di sole cercando la pasticceria che inventò il caramello al burro salato, passeggiamo tra i menhir alla ricerca di Obelix, trascorriamo due giorni presso la Baie des Trépassés, luogo potente e misterioso. Scopriamo Pointe du Raz arrivandoci a piedi lungo un sentiero in mezzo alla brughiera, ci emoziona il suo faro, sulla punta del promontorio, e tutti e due immaginiamo il guardiano che ci lavorò fino a vent’anni fa, quando il faro venne automatizzato. Proseguiamo oltre il faro per raggiungere l’estremità e scorgere l’Île de Sein, seguiamo una traccia di sentiero con qualche passaggio un po’ esposto e ci fermiamo su un masso circondato dalle onde. Siamo sulla punta più occidentale della Francia e siedono accanto a noi pochi viaggiatori solitari e un giovane papà con sua figlia. È strano: le scogliere mi hanno sempre spaventata, eppure su questa punta dimentico tutto e rimango immobile. Guardo dritto davanti a noi, osservo il mare e mi sento forte.

Il viaggio prosegue tra camminate nei boschi, quelli dipinti da Gauguin, e spiagge ventose popolate da francesi poco vestiti che sembrano ignorare il freddo. Partecipiamo alla sagra della sardina, protagonista assoluta di Concarneau e mangiamo ostriche in riva al mare a Cancale. Scattiamo foto in una delle coste più belle della Francia, la Côte du Granit Rose, dove viene il dubbio che i massi siamo stati appoggiati per essere usati da sfondo in un cartone animato. Mangiamo galette bretoni in ogni luogo, salate e dolci. Finiamo il viaggio a Saint Malò, la città dei corsari. Ci godiamo in questo luogo magico le incredibili maree. Camminiamo e corriamo sulla spiaggia con la bassa marea, conquistati dai colori e dalla luce. I bastioni ci indicano fin dove può arrivare il mare quando si fa grande, proviamo a immaginarlo. Farà paura, penso io.

Rientriamo a Torino. È il giorno dell’esame: coraggio! Liquido di contrasto e via dentro il tubo, poco meno di un’ora. Attendo il risultato per circa dieci giorni. Poi l’esito: non si evidenziamo metastasi. A due mesi il prossimo controllo. L’oncologo ci chiede delle nostre vacanze, parliamo del viaggio con entusiasmo. Per un attimo ci dimentichiamo di essere lì.

Viaggiare fa bene.