preferisco correre


Di sorrisi e di pianti

Sulla maratona si è già detto tutto. E io non so più cosa aggiungere.

– Non sono sicura di volerla correre questa maratona. Provo ad allenarmi ancora qualche settimana e poi decido. Vediamo come va il gluteo, se riesco a mettermi a posto. Vediamo come va la preparazione.

– Mi spiace pensavo di averti fatto un regalo ma se ti pesa fermati. Non devi dimostrare nulla a nessuno.

– Hai ragione Carlo, però mi scoccia non riuscire a arrivarci, è per tutti una bella esperienza. E tu anche mi hai convinta che sarà così.

Da qualche settimana sono iniziati gli allenamenti lunghi. E io fatico.

Mi sento intrappolata tra i chilometri già fatti e quelli ancora da fare. Ho male alle gambe, mi sento stanca. Questa storia mi agita.

Lunghi per i chilometri corsi in una sola volta e lunghi per il tempo impiegato: lunghi. Bisogna farli i lunghi, così mi hanno detto. Io credo di non averli amati da subito.

Ma i lunghi servono. E questa maratona me lo ha insegnato. È stato tutto facile grazie a loro e io me la sono veramente goduta. Non ho avuto male e ho corso bene.

La mia prima maratona è stata semplicemente bellissima.

Bellissima perché è stata una corsa con un livello bassissimo di stress. Abituata alle corse brevi dove sin dalla partenza senti la tensione della competizione, davanti al Duomo di Firenze io ho sentito solo il fascino di far parte di un rito collettivo.

Una grande euforia. Lì con tutte quelle persone non ho più pensato ai 42 chilometri che mi aspettavano ma ho solo pensato che tutto mi sembrava molto divertente e piuttosto esaltante. Mi sono sentita quasi in un set cinematografico.

In griglia ho incontrato un atleta pinerolese come me, abbiamo aspettato allegri e scherzato fino allo sparo. Io, lui e un ragazzo spagnolo. L’attesa è stata divertente. Poi il via. Ci siamo allineati per correre insieme e abbiamo trovato la nostra andatura. Dal ventesimo sono rimasta da sola, i miei compagni di avventura hanno cambiato passo e io ho deciso di non modificare il mio ritmo. Ho mantenuto una strana tranquillità, mi sono goduta l’ansia di non dover battagliare con altre avversarie, la serenità di non sentire il cuore in gola, tutte sensazioni nuove per me. Mi sono sentita stranamente bene.

Ho scoperto così che correre con un ritmo costante non è poi così male, che non pensare a nulla e godersela è ancora meglio, che il tifo del pubblico che urla per te anche se non ti conosce è una cosa che dà una gioia immensa e che quello degli amici ti commuove. E che correre circondati dalla bellezza non può che darti euforia.

Durante la mia prima maratona mi sono commossa un sacco di volte. Mi sono commossa a sentire gli amici con la voce roca tanto è stato forte il loro tifo, mi sono commossa sentendo il coro gospel accanto all’installazione dedicata a Mandela, mi sono commossa correndo sul Ponte Vecchio animato da un calore umano da far venire i brividi, mi sono commossa quando ho letto km 40. Mi sono commossa quando ho superato il traguardo. Oltre il traguardo ho alzato lo sguardo e ho visto il sorriso di mamma:

– grazie mamma! Si, lo so, stai scuotendo la testa, ma stai anche ridendo. Hai ragione, siamo tutti un po’ matti … ma non è stato divertente?

Leggo sul tabellone 2:56:20. Sorrido.

“Avanti con il sorriso” è stato l’ultimo consiglio ricevuto la sera prima. E io credo di esserci riuscita.

Forse la maratona ha a che fare con un rito catartico o qualcosa di simile, guardandomi attorno scopro che siamo molti a piangere, ma anche molti a ridere.

Poi arriva Carlo e ricomincio a piangere.

Di sorrisi e di pianti. Così è stata la mia prima maratona.


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Non c’è fretta

IMG_0609Sono sempre arrivata tardi sulle cose, anche questa volta per parlare della AppleRun. Una delle gare a cui sono più affezionata.

– perché non ti iscrivi all’AppleRun? Magari scopri che ti piace gareggiare.

– Luca, ma lì ci sono atleti seri. Che ne so, io corro per staccarmi dalle mie preoccupazioni, corro con te per fare qualcosa insieme, per chiederti consigli, sinceramente non ci ho mai pensato. Poi non sono neppure tesserata.

– beh, per quello ci metti un attimo. Potrebbe essere una cosa bella, guarda che non vai piano quando corri con me, parli tutto il tempo! Se vuoi scarico qualche allenamento su internet e poi quel giorno ti porto io. Smettila solo di vestirti con le tute dismesse… comprati qualcosa di tecnico.

Luca, mio fratello, è così. La sua mente scientifica è spesso silenziosa, talvolta scontrosa, ma poi a un certo punto trova la soluzione e da quel momento in modo pragmatico va avanti. Luca è il Fratello maggiore.

Dopo qualche settimana, mi convinsi che potevo provarci. Potevo provare a correre l’AppleRun. Avevo già gareggiato nel 2008, alla Vivicittà di Torino, ma fu una prova generale alla corsa, di cui conservo un meraviglioso ricordo, perché in compagnia dei miei genitori, perché all’arrivo mi aspettava mia mamma. Fu una bella idea di mio padre, ma poi non feci più altre corse.

La AppleRun segnò un inizio.

Luca aveva trovato una soluzione: quel periodo non era per me un gran periodo. Certo, non avevo ancora scoperto di essere malata, ma le mie giornate non erano affatto serene. Molto impegnata sul lavoro, avevo pochissimo tempo libero e non riuscivo a dare un ritmo alla mia vita che non fosse un ritmo pesante. Poca socialità, poco tempo libero, poche cose divertenti, tante delusioni, tanto stress. Molta fatica.

La corsa della domenica mattina con Luca era una degli appuntamenti che preferivo. Mi facevo raccontare dei nipoti, scoprivo strade della collina a me sconosciute e tornavo a casa sempre di buon umore. Luca mi prendeva in giro per gli innumerevoli strati di maglie che indossavo per coprirmi dal freddo. Ho impiegato anni per togliermi qualche maglia e uscire a correre.

Arrivò novembre e il giorno della corsa. Era sabato. Pioveva. Pioveva tanto.

– ciao Luca, sono io. Direi che non andiamo.

– perché? per la pioggia? preparati, passo a prenderti.

Ci trovammo a Cavour in una giornata tremenda, di pioggia e freddo.

Ero terrorizzata, Luca mi aiutò a mettere il pettorale, a organizzarmi per la partenza, poi entrambi ci guardammo intorno. Ci parve di vedere solo atlete esperte, tutte avevano il cappellino con la visiera e io non ci avevo pensato, accanto a me una ragazza esilissima e con un completo super tecnico mi sorrise e mi aiutò a infilare il chip nella scarpa. La ragazza era una delle favorite e fu gentilissima.

Luca cercava di trasmettermi tranquillità ma forse anche lui si stava chiedendo se non avesse avuto una pessima idea a suggerirmi quella gara.

No, fu una grande idea! Un’idea che segnò un’inizio.

La gara non andò male. Luca rimase fermo sul percorso con l’ombrello aperto. E mi tifò.

Tornammo a casa tutti bagnati, ma quel giorno fui grata a mio fratello. Aveva fatto qualcosa di importante per me. Mi spronò e mi fu accanto come in seguito in tante altre occasioni.

– Brava, ciao. Buon riposo.

Luca è così.

Da quell’anno penso di aver saltato l’appuntamento con l’AppleRun solo una volta, quel novembre in cui mi operarono per il secondo tumore, ma gli altri anni con terapie in corso corsi sempre. Da quella prima esperienza scelsi di continuare a correre, mi ammalai una prima volta e poi una seconda, nel frattempo mi trasferii a Torino, mi iscrissi a una società sportiva e nonostante tutto, cercai di correre tutte le volte che riuscivo. Luca c’entrò ancora molto in tutte queste altre prove.

Quest’anno, finalmente fuori terapie, la AppleRun mi è sembrata ancora più bella. Gara organizzata in modo impeccabile, con un livello molto alto, un’atmosfera stimolante. Ho corso con piacere. Ho corso bene, ho corso forte. E ho concluso con un risultato inaspettato. Ho portato il cappellino con la visiera, ma non è piovuto.

– Luca, stiamo arrivando. È andata benissimo. Porto frittelle di mele, cartocci di mele e mele a volontà.

– brava. Ciao. A dopo.

Si parte e si riparte sempre da un punto. Non c’è fretta.


Che paura e che bellezza la Maratona Reale!

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– Come sei arrivata?

– Seconda.

Seconda assoluta alla Maratona Reale. Una grande soddisfazione, un buon risultato, ma soprattutto un’esperienza bellissima.

Mi sono impegnata molto in queste quattro prove e in ognuna ho incontrato difficoltà differenti e gioie inaspettate. Non avevo mai partecipato a un circuito di gare con classifica finale e questa formula man mano che si definiva mi ha messo un po’ in difficoltà. Ha creato in me un po’ di ansia. Riesco poco a fare calcoli. A considerare strategie. Ad allenarmi in modo mirato.

A dirla tutta ho sempre una gran paura, nonostante i miei risultati. Una paura pazzesca. Una paura da rompere le scatole a tutti. Sono autenticamente una fifona e un’insicura. Ma alla fine corro.

Corro perché mi fa star bene, perché mi diverte,  perché mi sembra una di quelle poche cose che mi vengono abbastanza bene. Corro per stare in mezzo alla gente, per provare a farcela.

Corro soprattutto per avere meno paura. Forse per fare esercizio di coraggio.

Durante queste quattro gare ho provato la corsa con la febbre, la corsa dello star bene, la corsa dell’agitazione, del fiato corto e del mal di stomaco. Ogni gara è stata diversa dalle altre. L’ultima gara è stata la più sofferta. Ero stanca da settimane, con tanti pensieri che mi appesantivano. Mi spiaceva deludere chi si era immaginato una mia vittoria e chi mi credeva forte e combattiva. Mi sono presentata alla partenza terribilmente agitata. Così agitata da non controllare il ritmo della corsa. Sono partita come un fulmine, sicuramente troppo veloce, e poi ho rallentato per una fitta tremenda allo stomaco. Intanto la mia avversaria è caduta, non l’ho vista arrivare, mi sono dispiaciuta, non ho capito cosa fosse successo, ma ho capito che qualcosa non stava funzionando. Ho perso la concentrazione, ho rallentato e poi ho accelerato, ho iniziato a respirare male e a sentire fitte allo stomaco. Nel frattempo Carola, la mia avversaria, mi ha raggiunta e con una grinta incredibile ha tagliato il traguardo per prima.

La corsa per me è anche questo: agitarsi, sbagliare, sentirsi impreparati, ritirarsi, rallentare, ripartire, sentirsi forti e non esserlo, sentirsi deboli e ritrovarsi forti, ridere e piangere, pensare di non farcela, farcela con facilità, stupirsi di sé stessi, immaginarsi risultati improbabili, rinunciare a raggiungerli, sentirsi inadeguati. La mia corsa non potrà mai essere un secco calcolo matematico. E a me questa cosa piace. Anzi, un po’ mi rasserena.

La Maratona Reale è diventata soprattutto un piccolo tour tra amici. Una somma di tempi, ma anche di tanti momenti emozionanti.

In ordine sparso ricordo:

– Carola che mi passa l’acqua durante la terza tappa.

– All’arrivo di tutte le tappe Viviana che mi sorride.

– Carlo che mi manda un bacio sulla linea di partenza, cogliendo sempre la mia agitazione.

– Gli amici di BR che gioiscono per i miei risultati al termine di ogni tappa e quelli che mi incoraggiano durante la gara, superandomi.

– Rusty che mi tifa fino all’ultimo metro della terza tappa. Grazie Presidente!

– Il nastro dell’arrivo e la mia emozione per la vittoria della terza tappa.

– Federico che guarda la zia sul podio al termine della prima prova, un po’ deluso per il secondo posto.

– Gli indispensabili riscaldamenti di Paolo prima di ogni gara. E i suoi consigli.

– Elena e i suoi immancabili selfie durante la premiazione.

– La birra con la mia amica Renata al termine della prima tappa e i nostri balletti in attesa delle premiazioni.

– Vittoria che emozionata mi consegna l’acqua all’arrivo.

– I volontari a piedi, in bici, in moto. Grazie per il tifo!

– Lo staff organizzativo che ha garantito un’atmosfera di allegria e di festa.

– Fausto Bio Correndo che ha raccontato le gare e spesso mi ha emozionata con i suoi articoli.

– Le telefonate a papà e a i miei fratelli al termine della gara.

Arrivederci paura! Ci vediamo alla prossima gara.


Adesso esco a correre

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– ma quante scarpe aveva?

– beh, tante direi.

– questa collana la ricordo benissimo.

– ma guarda questa!

– le collane sono tantissime!

È così che Elisa ed io ci facciamo forza e affrontiamo quel faticoso lavoro di selezione degli oggetti di mamma: i suoi colorati e eleganti foulard, le sue tante collane, le maglie, i cappotti, le sciarpe e tutto il resto.

Sappiamo che lei avrebbe voluto regalare le sue cose a persone in difficoltà e noi con tutto il coraggio possibile cerchiamo di selezionarle, tenendo per noi quelle che hanno un significato particolare.

I suoi oggetti parlano di lei, dei suoi gusti, del suo umore, delle sue passioni, del suo rigore, delle sue scelte di vita. I suoi oggetti disposti sul letto in attesa di nuova destinazione ricostruiscono la sua storia.

Due giorni in cui ci immergiamo nel suo mondo.

Due giorni di settembre con sole e cielo terso. Con una luce forte che illumina la stanza.

Gli oggetti escono dalla casa un po’ alla volta, sistemati bene in scatoloni e borse come lei avrebbe fatto. L’ultimo regalo che Carlo ed io le facemmo, con un po’ di ironia, fu un libro intitolato “Il magico potere del riordino” dell’autrice giapponese Marie Kondo. Lei mi lasciò un messaggio di commento. Scrisse: davvero sorprendente!

In effetti troviamo tutto molto in ordine e cerchiamo di mantenerlo anche nel nostro lavoro. Il distacco non fa male, quegli oggetti riavranno una nuova vita. Magari emozioneranno di nuovo destinatari sconosciuti e circoleranno ancora una volta tra mani pronte ad accoglierli. Mamma si è sempre occupata dei meno fortunati e questo sarà il suo ultimo gesto di generosità.

– Elisa, ma guarda questo!

Un colbacco nero sbuca fuori da un armadio, ci mettiamo a ridere. Non resisto, lo indosso e mi presento così in cucina dove i miei nipoti stanno guardando la tv. Dietro di me, mia sorella si gusta la scena. Ridiamo tutti.

Terminiamo il lavoro a metà pomeriggio, il sole è già basso. Mi infilo le scarpe da corsa e mi dirigo verso la campagna. Mi sento legata e stanca, raggiungo un piccolo paese e decido da lì, di tornare indietro. La strada del ritorno mi regala un tramonto incantevole sulle montagne, correndo mi godo lo spettacolo e l’aria un po’ frizzante di inizio autunno.

– mamma, abbiamo fatto un buon lavoro. Saresti orgogliosa di noi.

Dico a bassa voce.

Intanto mi sembra di avere le gambe più sciolte, accelero e arrivo bene, più serena.

Corro con il sole che ancora riesce a scaldarmi, corro pensando a questi ultimi mesi, mesi difficili ma anche mesi di tante corse fortunate, di nastri tagliati, di incontri belli nello sport. Corro pensando alla terza tappa della Maratona Reale, dove la mia giovane avversaria in prossimità del ristoro mi passa l’acqua e poi non si risparmia di farmi tanti complimenti quando giungo per prima al traguardo. Pensando a quella gara, mi vengono in mente tutti quelli che mi hanno tifato fino all’ultimo metro, che hanno gioito per me. E poi l’emozione del traguardo. E quel nastro che è privilegio di pochi e che alcuni anni fa non avrei mai pensato di tagliare. Gli abbracci, le risate durante la premiazione. Quante sorprese nella mia vita!

La corsa mi ha aiutato ad avere più coraggio, a sentirmi più forte e più generosa.

Per loro, per quelli che tifano da sempre per me, sono pronta a indossare il buffo colbacco, ogni volta che sarà necessaria una risata. E un po’ di allegria.

– Elisa, il colbacco lo teniamo.

Si avvicina Federico:

– zia, va benissimo come vestito di carnevale. Mi fa venire in mente le guardie di Londra.

– hai ragione Federico.

Federico si infila il cappello e il suo viso si illumina. Cammina su e giù come una guardia, alzando le gambe tese e muovendo le braccia come un burattino.

– Elisa, abbiamo fatto un buon lavoro.

– Si credo di sì. Carla, cosa fai adesso?

– Adesso esco a correre.

E mi sento un po’ più coraggiosa.


Alzare lo sguardo

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Sono contenta, le gambe tremano ancora, ho l’esito in mano, digito il numero e chiamo mia mamma. Poi mi blocco, guardo il telefono: no, non posso chiamarla per dirle che l’esame è andato bene, devo alzare lo sguardo questa volta, parlarle da quaggiù e immaginare la sua voce che dice:

– Ah! che bella notizia! Dobbiamo festeggiare. Evviva!

Salgo in auto, chiamo i miei fratelli e guardo verso le montagne. Papà oggi è in cima a una di loro, starà seduto con un panino in mano a godersi il paesaggio. Ci penso, non voglio che si perda la luce di questa giornata, in questo periodo di ombre. Lo chiamerò questa sera.

E intanto è arrivato agosto. Mese di vacanze, di telefonate lontane, di avventure.
Google mi propone di rivivere un giorno. Il giorno è il 20 agosto, anniversario di matrimonio dei miei genitori.

Mi propone quello di due anni fa, la festa del loro 50esimo anno di matrimonio. Una festa intima in montagna come nello stile della mia famiglia. Guardo le foto e vedo che mamma sorride a papà, dopo 50 anni. Sanno ancora ridere insieme.

Mamma andava molto fiera di ogni anno passato con papà. E aveva ragione. 52 anni insieme non sono pochi: uno slalom da affrontare tenendosi per mano, tra difficoltà, imprevisti, progetti da realizzare e tre figli.

Il vuoto che avverto quest’anno è così pesante che non riesco a scegliere una vacanza conciliante con il mio umore. Gli esami di controllo per il melanoma cadono prima delle vacanze e si portano via tutta la mia serenità. Le attese degli esiti mi tolgono energia e entusiasmo. Gli accertamenti per escludere il peggio richiedono ancora pazienza e ottimismo e a me sembra di avere perso entrambi.

Poi arriva l’ultimo esito, dopo un esame di accertamento, è tutto a posto. Bene, si parte.

Quest’anno decidiamo di fare una vacanza in bici, in Francia. Penso che muovermi mi farà bene: è sempre stato così.

Pedaliamo su strade al profumo di lavanda e su sterrati polverosi. Visitiamo borghi della Provenza e città d’arte. È bello spostarsi con la bicicletta, le giornate sembrano più lunghe e raggiungere la meta al termine di una giornata dà molta soddisfazione.

Fatico a gestire la tristezza, catturo qualche momento di serenità lungo le piste ciclabili. Pedalo a tratti veloce per fuggire dai miei pensieri. Mi guardo attorno alla ricerca di emozioni. Cerco qualcosa che mi scuota per sentirmi più leggera. Dopo una settimana di bici, scegliamo di concludere la vacanza a Barcellona. Camminiamo tanto, alzando lo sguardo per non perderci il fascino dei palazzi, le opere di Gaudí. Corriamo la mattina presto tra le strade di una città ancora stordita dal rumore della notte e assaporiamo il gusto del girovagare senza meta.

Muoverci è il nostro modo per distrarci dalle preoccupazioni, per sentirci vivi, per esercitarci alla fatica, per divertirci, per rincorrere i sogni e fuggire temporaneamente dalle nostre paure. È il nostro modo di dialogare con il corpo e con la mente. Muoverci è goderci la vita. Non è per tutti così. Non è per tutti possibile.

Rientriamo a Torino dopo qualche giorno e organizziamo una gita in montagna. Scegliamo una meta bellissima, in Val Maira. La giornata ci regala una luce speciale e più saliamo e più ci sentiamo bene.

– Papà sei molto stanco?
– No, direi che se non aumentate il passo va bene.

Gli ricordo che non è necessario raggiungere la vetta, anzi la nostra idea è stare su un prato a goderci il paesaggio. Camminiamo lungo il sentiero che porta alla vetta, fino a trovarci ai suoi piedi. Si presenta davanti ai nostri occhi come una meraviglia assoluta. Siamo tutti molto colpiti dalla sua bellezza.

– Se mi aspettate andrei in cima con Michi.
– Nessun problema Luca, noi ci fermiamo qua. Abbiamo le gambe stanche dalla corsa e non siamo così convinti di farcela.
– Tu papà?
– Ma forse meglio rimanere giù, anch’io sono stanco.

Bene, penso. Faremo un picnic.

Papà alza lo sguardo verso l’alto, guarda fisso la vetta, è in silenzio. Io lo osservo, noto il suo sguardo curioso e dice:

– Ci vengo anch’io.

Ed è così che vedo salire tre generazioni: Michele, suo padre e suo nonno di 80 anni. Ci ritroviamo alla macchina dopo qualche ora. Luca mi mostra una foto: sono in punta appoggiati alla croce, lui, Michele e papà.

Una vera passione, la montagna. Una passione di famiglia, che si tramanda. Una passione che sembra esorcizzare la tristezza, la malinconica e la paura di non farcela sempre. Una delle passioni di papà. La sua fuga e il suo rifugio. La sua disciplina.

A volte alzo lo sguardo e cerco le montagne. A volte mi basta guardarle per sentirmi meglio. A volte mi lascio ispirare. A volte funziona.


La linea di partenza

Se dieci anni fa mi avessero chiesto di immaginare una mia vittoria a una gara podistica al parco del Valentino non ci sarei riuscita. Dieci anni fa non avrei mai immaginato che un giorno a Torino qualcuno avrebbe gridato il mio nome per incoraggiarmi a non mollare, per sostenermi e aiutarmi a vincere una gara di corsa. Una gara di corsa! E gli applausi!

Dieci anni fa non avrei mai creduto di potermi ammalare di tumore, di curarmi per mesi e mesi e poi provare a tornare a vivere come una persona sana, dieci anni fa non avrei mai immaginato di sposarmi, di saper amare e di sentirmi amata così tanto. Non avrei mai immaginato di sentire così tanto la mancanza di mia mamma. Dieci anni fa era un pezzo di vita a cui ne sarebbe seguito un altro, completamente diverso, pieno di sorprese belle e brutte. Dieci anni fa era diverso.

L’altra sera, alla “Va Lentino”, ho tagliato il traguardo per prima e non mi è parso vero.

– Ciao Elisa, come va? ti chiamo ora perché tra poco vado a correre, anzi per dirla tutta gareggio.

– Ma davvero? Di sera?

– Si, è una gara bellissima, una grande festa al Valentino. Mi piacerebbe far bene, ma oggi sono stanca e ho la testa da un’altra parte.

– Carla, appunto! Ti ricordo che quando tu sei preoccupata per qualcosa, se corri, di solito, vai forte. Andrai alla grande.

– Ma sì, hai ragione. Corro e basta.

Al parco si respira un’atmosfera simpatica, è estate e si sente, Molta gente sorridente, voglia di divertirsi e di muoversi. Incontro i miei amici, quelli con cui corro tutto l’anno. Siamo rilassati. Sembra di vivere l’ultimo giorno di scuola. Una bella euforia di inizio estate.

Poi lo sparo e la gara. Una gara veloce. Corro concentrata, voglio far bene per me e per la mia squadra, senza la quale probabilmente non avrei iniziato a gareggiare e soprattutto non avrei avuto la possibilità di fare incontri così importanti da trasformarsi in amicizie insostituibili. La mia squadra che mi ha sostenuto in momenti difficili e bui della mia vita. Voglio far bene per mio papà, al quale mi piacerebbe raccontare che mi sono impegnata fino all’ultimo metro, voglio far bene per Carlo che mi vede sempre arrivare seconda. E così quando una fitta sopra lo stomaco mi suggerisce di rallentare io spingo ancor di più fin sotto il gonfiabile che segna l’arrivo. L’affetto del pubblico e quello degli amici mi stordisce e mi regala momenti di felicità.

A volte ho pensato che nella vita tutto potesse andar bene o andar male, che si potesse cambiare poco e che farsi sorprendere da un evento positivo fosse un regalo per pochi eletti. Pensavo che la vita fosse più lineare, magari più noiosa, talvolta crudele e spesso ingiusta.

Negli ultimi dieci anni sono entrata e uscita da scenari differenti, scenari scuri e orribili e scenari illuminati da una bella luce. Ho ricominciato tante volte, cercando di alzare lo sguardo e guardare lontano, molte volte con le lacrime agli occhi.

Ho cercato di rialzarmi, come facciamo tutti. Tutti noi che proviamo, anche attraverso la corsa, a guardare un po’ più in là, con fiducia e speranza. Che facciamo tesoro di piccoli momenti di gioia. Che cerchiamo un po’ di benessere e di leggerezza. Che riusciamo a ridere e ci fa un gran bene. E che ogni volta proviamo a migliorarci.

A volte si vince, a volte si perde. Non c’è scampo. Non solo nella corsa. Ma tentare di tornare alla linea di partenza è la sola cosa che si possa fare.

– Ciao papà, sono ancora al parco. Ho finito adesso.

– Come è andata?

– Ho vinto.

– Ah, bene.

– Sì, mi sono impegnata tanto.

– La categoria?

– No papà, assoluta.

Silenzio. Immagino dica qualcosa del tipo: “non c’era proprio nessuno”.

.- Però! Brava! Ora ricordati di mangiare.

– Anche tu papà. Buonanotte.


Dopo ci si sente meglio

metti le scarpe togli le scarpe

Per mesi ho parlato di questa gara. Per mesi ho cercato di capire come sarebbe andata. Per mesi ho pensato di potermi allenare bene. E poi non ne ho più parlato. Poi è arrivato il grande dolore della perdita di mamma, un’altra piccola grana di salute, tanti altri pensieri, un’altra gara, l’influenza e la Cortina-Dobbiaco è rimasta dietro a tutto.

Negli ultimi giorni mi sentivo anche un po’ a disagio nei confronti di mio papà, amante non solo della corsa ma anche della montagna. Forse più della montagna: io andavo sulle Dolomiti a correre, mentre lui si occupava di gestire il suo dolore a casa. Ho fatto anche un tentativo perché potesse venire con noi, ma tutti gli alberghi erano già stati prenotati. Arrivati a Dobbiaco, in alcuni momenti, ho vissuto in uno stato di straniamento totale. Troppi pensieri sovrapposti. Troppa paura di non farcela. Troppi chilometri da improvvisare.

Domenica mattina alla partenza ero in prima griglia con il mio amico Paolo. Mi sentivo fuori luogo. Gli anni scorsi, prima di partire, parlavamo di strategie, medie da tenere, di salite e di percorso. Lui corre molto forte e da sempre, alla Cortina-Dobbiaco Run, gli chiedo consigli e suggerimenti. Lo scorso anno penso di avergli elencato così tante volte tutti i miei acciacchi che immagino desiderasse di partire il prima possibile. Mi prestò anche un sacco nero per coprirmi, mi rassicurò tantissimo, mi assecondò sugli innumerevoli dubbi pre gara e poi corse come voleva lui. Corse forte. Fortissimo.

Quest’anno in vista di questa gara abbiamo corso qualche volta insieme, poi io non mi sono più allenata su percorsi lunghi e non ci siamo più visti fino a domenica.

Domenica mattina abbiamo salutato Carlo e i nostri altri compagni di squadra e siamo usciti dal Palazzo del Ghiaccio. Invece di andare subito sul rettilineo della partenza, come lo scorso anno, ci siamo seduti su un marciapiede al sole. Il rettilineo di partenza è sempre un luogo di tensione ma anche un contesto affascinante. Lì incontri i professionisti, li vedi da vicino, gli corri accanto, ti guardi attorno e ti senti un po’ privilegiato. Noi abbiamo scelto di aspettare lontano dalla partenza e solo all’ultimo ci siamo inseriti nelle prime file.

Sembravamo entrambi preoccupati, meno coinvolti del solito. Seduti su quel marciapiede con addosso i nostri pettorali davamo l’impressione di non aver voglia di gareggiare. Siamo rimasti lì, nei nostri sacchi neri per coprirci dal freddo (che poi non è arrivato), a guardare i ritardatari che si affannavano a raggiungere il palazzetto.

– Sai, mi sento molto stanco ultimamente. Proprio tanto stanco. Non ho testa per soffrire. Non so come andrà oggi, volevo far bene, ma …

– Paolo, credo sia normale. Siamo tutti un po’ stanchi in questo periodo, hai corso molto negli ultimi mesi, forse sei solo un po’ demotivato. Goditi la gara e non pensare al crono.

– Già. E tu?

– Io non so neanche come mi sento. Avrei voluto far bene, ma sai come è andata.

– Andrà comunque bene Carla. Tu provaci. Adesso mi sa che dobbiamo andare alla partenza.

– Sì, aspetta, salutiamo Carlo che sta arrivando e poi ci infiliamo.

Ci sistemiamo nelle prime file, Paolo un po’ più avanti. Manca poco allo sparo, Paolo indietreggia per salutarmi e mi sorride.

– In bocca al lupo Paolo!

– Anche a te Carlina!

Ci guardiamo come se volessimo dire ancora qualcosa, nel frattempo sentiamo lo sparo di partenza.

Pochi minuti dopo Paolo scompare dietro ai primi e io cerco la mia andatura, quella utile per superare i 13 km di salita lieve ma costante. Al quarto chilometro sono già in affanno, la testa è piena di pensieri e io ho solo voglia di piangere.

– Non pensare più, non pensare più a niente.

Mi ripeto a bassa voce, salendo piano piano.

– Concentrati sui tuoi piedi e corri. Corri, Carla, corri.

A un certo punto la testa si svuota, il cuore si fa più leggero e le gambe, senza inseguire un obiettivo, iniziano a spingere.

Non ho mai corso così. Non ho mai corso senza inseguire qualcuno sperando di raggiungerlo. Non ho mai corso senza provare felicità. Non ho mai corso senza godermi la competizione. Non ho mai corso sperando di arrivare alla fine. Sperando solo di allontanarmi dai miei pensieri.

Sui quei trenta chilometri ho avvertito il vuoto dentro e poi ho seguito l’istinto.

Sì, perché a un certo punto, in discesa, le mie gambe hanno deciso di non mollare per niente, di farsi forti, di non sentire i dolori muscolari e di andare avanti, un passo dopo l’altro.

Mi hanno portata loro, le gambe, fino all’arrivo. Solo negli ultimi chilometri la mia testa è tornata a farsi sentire, mi suggeriva di lasciar perdere, poi ha cambiato idea, mi ha sostenuto fino al traguardo, tra sconforto e grinta. E allora ho spinto, ho spinto ancora.

Supero il traguardo con un bel risultato.

Mi siedo all’ombra e mi tolgo le scarpe. Poi vado a ritirare la mia borsa. E aspetto gli altri. Suona il telefono:

– Ti sei già ripresa? Ho fatto due calcoli e ho pensato che fossi arrivata.

– Ciao papà, sono arrivata da pochissimo. Sono qui nel prato senza scarpe.

– Bene. Ciò che conta è che tu stia bene.

– Sì, sto bene.

– Brava, salutami tutti. Divertitevi.

Non vedo Paolo all’arrivo, tornata in albergo provo a scrivergli. Mi dice di aver capito al quarto chilometro di non avere le forze per fare bene come avrebbe voluto e di aver scelto un’andatura per godersi la gara. Mi dice di essersi girato più volte nella speranza di vedermi e concludere insieme.

– Paolo, ma stai bene?

– Sì, sto bene. E sono riuscito per la prima volta a vedere le Tre Cime correndo. E tu?

– Io ci ho provato. E sono andata bene. Non ho sentito più niente e ho corso.

A volte succede così. A volte serve sedersi al sole e aspettare qualche minuto in più. Poi andare verso la paura.

Talvolta la si insegue e la si affronta e tante altre volte si sfugge da essa.

Qualche volta si prova ad attraversarla per sentirla da vicino.

Dopo ci si sente meglio.

Mi allaccio le scarpe e mi godo l’affetto degli amici che pur stanchi aspettano con me la premiazione. E la gioia in quel momento torna a farmi visita.


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Le torte di maggio

La scorsa settimana ho compiuto gli anni.

Un compleanno strano.

Per la prima volta senza mamma, ma anche fuori dalla malattia dopo anni di cure, un compleanno che è caduto dopo un piccolo intervento chirurgico.

Non ho pensato di festeggiarlo, non capivo esattamente che cosa mi avrebbe fatto star meglio, ancora concentrata sulla guarigione post operatoria e con il cuore un po’ chiuso.

– Carlina, siamo nate lo stesso giorno! Festeggiamo insieme?

– È una bella cosa, ma io non ho la testa per preparare una festa.

– Tu non devi far niente, mi occupo io di tutto. Devi solo partecipare. Faccio un paio di torte.

E così martedì 15 maggio Monica si è alzata alle 5 e ha cucinato prima di andare a lavorare. Quel giorno non ha corso, come ogni mattina, e ha davvero pensato a tutto, anche al tavolino da campeggio da sistemare sul prato del parco. Durante la giornata l’ho sentita stanca e anche un po’ preoccupata. Alle 20 tutto era pronto.

Quella sera ho corso con il mio gruppo. Avevo bisogno di capire come stavo e sciogliere i miei pensieri. Monica mi ha detto che lei sarebbe andata il giorno dopo.

Al termine dell’allenamento ho raggiunto il nostro prato delle feste e con stupore ho realizzato che Monica non aveva preparato un paio di torte: quella mattina aveva sfornato 7 torte tutte diverse e 2 focacce, poi era andata a lavorare.

– Monica sei matta!

– Ci tenevo. Mi ha fatto piacere.

Subito dopo sono arrivati gli amici dell’allenamento. Sudati e stanchi. E anche quelli che l’allenamento non l’avevano fatto, più eleganti di noi.

Hanno regalato a me e a Monica un po’ del loro tempo, in una serata primaverile piuttosto fredda.

È arrivato un bouquet di tulipani gialli e una coroncina stupenda da regina per entrambe. Le torte di Monica sono state le vere protagoniste dei festeggiamenti. Buonissime, tutte, dal cioccolato alla nocciola, hanno reso il tavolino da campeggio un bancone da pasticceria.

Emozionata sono tornata a casa con il pensiero di non aver ringraziato tutti, di non aver ringraziato abbastanza Monica. Nelle sue torte ho sentito l’affetto e la generosità.

La serata si è conclusa con una cena buonissima. E un ottimo vino.

– Carlo, non mi aspettavo una festa così, magari se sei stanco saltiamo la cena, io sono già contenta. Ti riposi un po’.

– Non se ne parla proprio, non è ancora finito il giorno del tuo compleanno. Ora passiamo al pesce.

E così ho scelto un vestito e sono andata a cena con l’uomo della mia vita.

Sabato mattina ero al mercato con mio papà. Da lontano vedo mio fratello, aveva già fatto la spesa.

Mi guarda e sorride:

– Ho comprato le fragole. Sembrano molto buone. Vado a casa e provo a preparare la torta che ti preparava mamma per il tuo compleanno. Era questa, giusto? Pan di Spagna, fragole e panna?

Un po’ stupita, rispondo:

– Sì, mamma diceva sempre che la torta alle fragole è la torta dei nati nel mese di maggio. Ma non è il caso, mi fa piacere, ma preferisco che tu vada a correre come fai il sabato mattina.

– Sarà più buona di quella di mamma. Stai a casa di papà e noi arriviamo con la torta.

Papà ed io prepariamo tutto per la festa, in silenzio, un po’ straniti. Cerco in un armadio piattini e bicchieri, scelgo una tovaglia e aspetto.

Arrivano i miei fratelli, con i miei nipoti. Arriva la torta, quasi uguale, forse con una variante sulla copertura.

– Allora, come è venuta? Mi ha anche aiutato Michi.

– È buonissima. Strepitosa.

In effetti la torta è anche più buona di quella di mamma, ha qualcosa di diverso nel pan di Spagna. Luca ha aggiunto un ingrediente, ma non ci dice quale. Proviamo a indovinare, ma nessuno di noi riesce a scoprirlo. Questa torta sarà la nuova torta di famiglia dei nati in maggio.

– Luca, ma sei andato anche a correre?

– No, forse vado stasera.

Felice, mi viene in mente che il regalo più bello spesso è quello che arriva da un piccolo gesto di generosità.

Tornando a casa penso che questo compleanno lo ricorderò come il compleanno delle torte fatte in casa, impastate da mani che si stendono verso di me.

Il compleanno delle ricette che ricordano il passato e di quelle che sanno di nuovo. Le ricette per torte che profumano di affetto e di amore, come tutte le persone che hanno reso il mio compleanno un giorno speciale.

Grazie a tutti.


È solo malinconia

– Cosa hai mamma?

– Niente, Carlina. È solo malinconia.

La mia famiglia andava in vacanza nel mese di luglio. In campeggio. Stipati dentro un’auto, borse sulle ginocchia, carrello tenda, si puntava dritti al mare, in Toscana o più a sud.

Papà guidava concentrato, noi ci lamentavamo perché stavamo stretti e avevamo caldo e mamma cercava di mantenere la calma, messa in mezzo tra il nervosismo e la stanchezza di mio padre e i nostri capricci.

Arrivati alla meta, la fatica proseguiva nella scelta del campeggio, che poteva essere già pieno (come segnalava il cartello all’esterno) oppure ancora con qualche disponibilità di posti. Lo si girava a piedi, affamati e stanchi, sotto il sole, si guardavano i servizi igienici, l’ombra garantita dagli alberi e poi ci si consultava tra noi: il più delle volte si proseguiva per visitarne almeno altri due, infine esasperati se ne sceglieva uno, magari peggiore di quelli visti qualche chilometro prima oppure proprio quello che tutti noi desideravamo.

L’impresa si concludeva con l’ingresso in auto con il traino all’interno del campeggio fino alla nostra piazzola. E finalmente si procedeva con il posizionamento del carrello tenda. A quel punto si parlava poco tra noi, stanchi e un po’ preoccupati che tutto andasse bene. Io ero sicuramente la più musona, forse sognavo sempre qualcosa di meglio. Mia mamma e mia sorella erano più ottimiste, mio fratello cercava di aiutare papà.

Avevamo tutti molta fame, perché l’ora di pranzo era di solito l’ora in cui si arrivava a destinazione. Mia madre tirava fuori dal frigo portatile l’insalata di riso, immancabile piatto in qualsiasi viaggio oltre le due ore, apriva un telo a terra, ci faceva sedere distribuendoci piatti e posate di carta e mio padre ormai stremato dalla stanchezza apriva lo scomodo carrello tenda. Ancora qualche acrobatica manovra per raddrizzarlo e poi anche lui si cercava un posto per sedersi e guardare a distanza la sistemazione conquistata. Aveva il viso stanco e tirato. Infine andava a parcheggiare la macchina. Lì, dopo quell’ultima azione, la nostra vacanza aveva inizio.

Nel 1986 morì mia nonna e qualche mese dopo noi partimmo per le vacanze.

Mia mamma cercava di nascondere il dolore, ma ogni giorno per qualche ora vedevo il suo sguardo intristirsi. Sorrideva, ma era triste.

Ripeteva che era solo malinconia. A me veniva un crampo allo stomaco a vederla così, e lei, a quel punto, diceva:

– Su, andiamo a caccia di bellezza!

La mia vacanza a Cannes è stata la mia prima vacanza senza mamma. Senza la nostra consueta telefonata, la telefonata in cui le raccontavo che stavamo bene, che forse avremo speso un po’ di più rispetto alle previsioni, che era tutto bellissimo. Finivo col raccontarle qualche dettaglio che avevo notato, qualcosa di frivolo e divertente. La nostra conversazione, di solito, si concludeva così:

– Mamma, è davvero bello. Mi piacerebbe tornarci con te.

– Grazie Carlina. Per ora cattura tutta la bellezza che puoi.

A Cannes è stato tutto emozionante: il giorno della gara di Carlo, le cene con gli amici, le passeggiate lungo il mare, il mercato, le isole Lérins, la corsa sulla Croisette. Eppure, in alcuni momenti, mi sono sentita triste:

“È solo malinconia, Carlina”. Ho ripetuto più volte a voce bassa.

Un giorno sono stata a un mercato dell’antiquariato e dell’usato, una passione ereditata da mamma che adorava aggirarsi tra i banchi alla ricerca di qualche ciarpame affascinante. Ho pensato a lei, a quando rientrava a casa con qualche oggetto acquistato al mercatino, di solito rideva e diceva:

–  Al mercatino ci sono più “baracche” che cose interessanti, ma è divertente. Ho trovato una piccola cosa.

A quel punto tirava fuori un foulard, una tazzina, un vaso, un anello o chissà quale altro oggetto in cui aveva intravisto bellezza.

Al mercatino di Cannes con un foulard di seta tra le mani ho pensato di telefonare a mamma:

– Non sai cosa ho trovato, mamma!

Ho posato quel foulard simile a quelli che lei indossava e ho proseguito il giro tra le bancarelle.

Qualche ora più tardi ero con Carlo sull’Isola di Santa Margherita, seduta su uno scoglio.

– Che meraviglia, Carlo.

– Si, è bellissimo.

– Fermiamoci ancora un po’.


Il dolore buono

Dieci anni fa presi parte alla mia prima gara competitiva. Era aprile, c’era il sole, e con mio papà e mia mamma venni a Torino per correre la mia prima Vivicittà.

A quell’epoca correvo per tenermi in forma, non era un gran bel periodo, lavoravo tanto e mi divertivo poco.

Quel giorno mio papà mi svegliò prestissimo con una telefonata invitandomi a fare qualcosa di diverso: correre al Parco del Valentino in una giornata di sole. Mi convinse minimizzando sulla gara e dicendomi che lui e mamma avrebbero fatto la camminata di 4 chilometri. Mi disse che il Parco del Valentino in primavera era bellissimo. Che valeva la pena provare a fare una gara tanto per far qualcosa di diverso.

Così mi preparai velocemente e lui mi venne a prendere a casa. In viaggio gli chiesi di quanti chilometri era la gara e ovviamente lui diede una risposta approssimativa:

– circa una decina

disse, senza aggiungere molto altro.

Mio padre ha sempre adottato questa tecnica per convincerci a fare imprese sportive. Quando si partiva per una gita in montagna, arrivati al parcheggio, guardava verso la meta e diceva:

– ci vorrà un’ora a piedi, se non vi fermate ogni 10 minuti anche meno.

E quasi sempre il sentiero richiedeva circa due ore di cammino.

In fondo però ha sempre avuto ragione lui, non ci siamo mai buttati per terra esausti, i miei fratelli ed io, al massimo finivamo per lamentarci e tenevamo il broncio per qualche ora. Ma alla meta, in qualche modo, si arrivava sempre.

Quella mattina del 2008 al Valentino, ero davvero inesperta, mi iscrissi alla gara, mi avvicinai alla partenza e con le cuffiette a tutto volume iniziai a correre. La gara mi sembrò lunghissima. Faticai parecchio, eppure su uno dei ponti del percorso ricordo di aver pensato che correre non era poi così male.

Arrivai sul rettilineo finale e vidi a farmi il tifo mio padre e mia madre. Proprio lei, con quel suo indimenticabile sorriso. Credo che fu l’unica volta che mamma vide un mio arrivo.

Oggi ho scelto di correre la Vivicittà. E ho pensato a mamma tutto il tempo.

Oggi non ho sentito male al gluteo, nonostante l’infortunio. Non ho sentito nulla, solo il dolore che mi accompagna dal 5 marzo. Oggi volevo ricordare quel giorno di aprile di tanti anni fa e cercare di fare ancora meglio.

Da quella gara in poi la corsa entrò nella mia vita, regalandomi gioie, soddisfazioni, amicizie e forza. E soprattutto l’amore.

Qualche settimana fa ho corso piangendo fino al traguardo, sentivo il mio cuore scoppiare e all’arrivo piansi ancora molto abbracciando un caro amico. Non riuscivo a trattenere le lacrime.

Questa mattina il dolore e il ricordo hanno preso un’altra forma, forse un po’ più dolce. Mi è parso un dolore più buono. Un ricordo più conciliante. Ho immaginato di entrare in un disegno con tanti puntini da unire con una matita e ho provato a tracciare una linea tra due puntini.

Questa mattina ho vinto. Ho vinto ricordando quel giorno in cui scoprii che la corsa non è poi così male e immaginando il sorriso di mamma.

Ho vinto per telefonare a papà e dire:

– comunque sono 12 chilometri, papà. Ma oggi ho vinto. E mamma ha sorriso anche questa volta. Ne sono sicura.