Per mesi ho parlato di questa gara. Per mesi ho cercato di capire come sarebbe andata. Per mesi ho pensato di potermi allenare bene. E poi non ne ho più parlato. Poi è arrivato il grande dolore della perdita di mamma, un’altra piccola grana di salute, tanti altri pensieri, un’altra gara, l’influenza e la Cortina-Dobbiaco è rimasta dietro a tutto.
Negli ultimi giorni mi sentivo anche un po’ a disagio nei confronti di mio papà, amante non solo della corsa ma anche della montagna. Forse più della montagna: io andavo sulle Dolomiti a correre, mentre lui si occupava di gestire il suo dolore a casa. Ho fatto anche un tentativo perché potesse venire con noi, ma tutti gli alberghi erano già stati prenotati. Arrivati a Dobbiaco, in alcuni momenti, ho vissuto in uno stato di straniamento totale. Troppi pensieri sovrapposti. Troppa paura di non farcela. Troppi chilometri da improvvisare.
Domenica mattina alla partenza ero in prima griglia con il mio amico Paolo. Mi sentivo fuori luogo. Gli anni scorsi, prima di partire, parlavamo di strategie, medie da tenere, di salite e di percorso. Lui corre molto forte e da sempre, alla Cortina-Dobbiaco Run, gli chiedo consigli e suggerimenti. Lo scorso anno penso di avergli elencato così tante volte tutti i miei acciacchi che immagino desiderasse di partire il prima possibile. Mi prestò anche un sacco nero per coprirmi, mi rassicurò tantissimo, mi assecondò sugli innumerevoli dubbi pre gara e poi corse come voleva lui. Corse forte. Fortissimo.
Quest’anno in vista di questa gara abbiamo corso qualche volta insieme, poi io non mi sono più allenata su percorsi lunghi e non ci siamo più visti fino a domenica.
Domenica mattina abbiamo salutato Carlo e i nostri altri compagni di squadra e siamo usciti dal Palazzo del Ghiaccio. Invece di andare subito sul rettilineo della partenza, come lo scorso anno, ci siamo seduti su un marciapiede al sole. Il rettilineo di partenza è sempre un luogo di tensione ma anche un contesto affascinante. Lì incontri i professionisti, li vedi da vicino, gli corri accanto, ti guardi attorno e ti senti un po’ privilegiato. Noi abbiamo scelto di aspettare lontano dalla partenza e solo all’ultimo ci siamo inseriti nelle prime file.
Sembravamo entrambi preoccupati, meno coinvolti del solito. Seduti su quel marciapiede con addosso i nostri pettorali davamo l’impressione di non aver voglia di gareggiare. Siamo rimasti lì, nei nostri sacchi neri per coprirci dal freddo (che poi non è arrivato), a guardare i ritardatari che si affannavano a raggiungere il palazzetto.
– Sai, mi sento molto stanco ultimamente. Proprio tanto stanco. Non ho testa per soffrire. Non so come andrà oggi, volevo far bene, ma …
– Paolo, credo sia normale. Siamo tutti un po’ stanchi in questo periodo, hai corso molto negli ultimi mesi, forse sei solo un po’ demotivato. Goditi la gara e non pensare al crono.
– Già. E tu?
– Io non so neanche come mi sento. Avrei voluto far bene, ma sai come è andata.
– Andrà comunque bene Carla. Tu provaci. Adesso mi sa che dobbiamo andare alla partenza.
– Sì, aspetta, salutiamo Carlo che sta arrivando e poi ci infiliamo.
Ci sistemiamo nelle prime file, Paolo un po’ più avanti. Manca poco allo sparo, Paolo indietreggia per salutarmi e mi sorride.
– In bocca al lupo Paolo!
– Anche a te Carlina!
Ci guardiamo come se volessimo dire ancora qualcosa, nel frattempo sentiamo lo sparo di partenza.
Pochi minuti dopo Paolo scompare dietro ai primi e io cerco la mia andatura, quella utile per superare i 13 km di salita lieve ma costante. Al quarto chilometro sono già in affanno, la testa è piena di pensieri e io ho solo voglia di piangere.
– Non pensare più, non pensare più a niente.
Mi ripeto a bassa voce, salendo piano piano.
– Concentrati sui tuoi piedi e corri. Corri, Carla, corri.
A un certo punto la testa si svuota, il cuore si fa più leggero e le gambe, senza inseguire un obiettivo, iniziano a spingere.
Non ho mai corso così. Non ho mai corso senza inseguire qualcuno sperando di raggiungerlo. Non ho mai corso senza provare felicità. Non ho mai corso senza godermi la competizione. Non ho mai corso sperando di arrivare alla fine. Sperando solo di allontanarmi dai miei pensieri.
Sui quei trenta chilometri ho avvertito il vuoto dentro e poi ho seguito l’istinto.
Sì, perché a un certo punto, in discesa, le mie gambe hanno deciso di non mollare per niente, di farsi forti, di non sentire i dolori muscolari e di andare avanti, un passo dopo l’altro.
Mi hanno portata loro, le gambe, fino all’arrivo. Solo negli ultimi chilometri la mia testa è tornata a farsi sentire, mi suggeriva di lasciar perdere, poi ha cambiato idea, mi ha sostenuto fino al traguardo, tra sconforto e grinta. E allora ho spinto, ho spinto ancora.
Supero il traguardo con un bel risultato.
Mi siedo all’ombra e mi tolgo le scarpe. Poi vado a ritirare la mia borsa. E aspetto gli altri. Suona il telefono:
– Ti sei già ripresa? Ho fatto due calcoli e ho pensato che fossi arrivata.
– Ciao papà, sono arrivata da pochissimo. Sono qui nel prato senza scarpe.
– Bene. Ciò che conta è che tu stia bene.
– Sì, sto bene.
– Brava, salutami tutti. Divertitevi.
Non vedo Paolo all’arrivo, tornata in albergo provo a scrivergli. Mi dice di aver capito al quarto chilometro di non avere le forze per fare bene come avrebbe voluto e di aver scelto un’andatura per godersi la gara. Mi dice di essersi girato più volte nella speranza di vedermi e concludere insieme.
– Paolo, ma stai bene?
– Sì, sto bene. E sono riuscito per la prima volta a vedere le Tre Cime correndo. E tu?
– Io ci ho provato. E sono andata bene. Non ho sentito più niente e ho corso.
A volte succede così. A volte serve sedersi al sole e aspettare qualche minuto in più. Poi andare verso la paura.
Talvolta la si insegue e la si affronta e tante altre volte si sfugge da essa.
Qualche volta si prova ad attraversarla per sentirla da vicino.
Dopo ci si sente meglio.
Mi allaccio le scarpe e mi godo l’affetto degli amici che pur stanchi aspettano con me la premiazione. E la gioia in quel momento torna a farmi visita.
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