preferisco correre

La fascia magica

arrivo ekirun milano 2016

Domenica 12 novembre si è svolta a Milano la terza edizione dell’Ekirun.

Avevo iniziato da qualche mese la terapia, quando lo scorso anno mi dissero:

– Regina, ti iscriviamo ad una staffetta che organizzano a Milano. Si chiama Ekirun
– Amici, voi siete pazzi, non corro da mesi, vi faccio fare una pessima figura. E poi cos’è l’Ekirun?
– Regina abbiamo deciso: corri con noi. Vedrai ti piacerà. Non ci importa del risultato ci interessa che tu la faccia con noi. A Milano il percorso è lungo quanto una maratona, diviso in 6 frazioni (3 lunghe da 7 o 10 km e 3 corte da 5 km), dobbiamo solo scegliere le frazioni, tu potresti fare gli ultimi 5 chilometri.

A casa rifletto su cosa fare. È una soluzione per distrarmi, penso. Alla fine decido di partecipare.

La nostra squadra è assolutamente irregolare: per essere mista deve essere composta da tre femmine. La nostra è composta da Diego, Dario, Paolo, Andrea, Salvatore ed io. Toccherà a me tagliare il traguardo e concludere la gara.

Ci scaldiamo in pista, proviamo i cambi e accompagniamo alla partenza il nostro primo staffettista. Siamo emozionati e impazienti come bambini. Il testimone è una fascia da infilare durante la corsa, il tasuki, simbolo della solidarietà tra i vari concorrenti. Proviamo a passarci la fascia e giochiamo sul prato della pista di atletica a far finta di essere atleti veri, anzi professionisti.

La gara inizia: accompagniamo Salvatore alla partenza. Si parte. Uno a uno ci posizioniamo in zona cambio, saltelliamo sul posto in attesa di veder apparire il nostro compagno di squadra all’interno dell’arena. Tifiamo così forte da perdere la voce.

Corriamo tutti dando quello che riusciamo. È la magia della staffetta: corri per te ma sopratutto corri per i tuoi compagni. E la corsa da sport individuale si trasforma in sport di squadra.

Finalmente arriva il mio turno, non guardo l’orologio e corro più forte che posso. Oltre lo striscione ritrovo i miei amici ad aspettarmi e mi luccicano gli occhi. L’arrivo è in pista, tutto sembra evocare un’impresa grandiosa. Al termine della staffetta ci sistemiamo in cerchio e ci abbracciamo.

È solo un gioco, ma è bellissimo.

Di fronte a un anno che si presenta lungo e faticoso, in quel momento con la fascia appoggiata di traverso sul mio petto mi sento pronta a affrontare il peggio. Mi sento bene.

Sul treno che ci riporta a Torino non sembriamo stanchi neanche un po’, siamo solo euforici. Sì, torniamo bambini per qualche ora. Il momento simbolico del passaggio del testimone ci entra nel cuore, la pista di atletica ci emoziona. A quel punto mi chiedo che cosa sia esattamente un ekiden. Cerco qualche informazione.

Ekiden è una corsa a staffetta su strada e nasce in Giappone nel 1917 con una gara fra Kyoto e Tokyo su un percorso di 508 chilometri per festeggiare lo spostamento della capitale. Negli anni la disciplina ha acquistato molta popolarità, oggi le staffette a squadre su varie distanze sono diventate lo sport nipponico più popolare. Una disciplina che riempie le strade di tifosi per le sue prove più importanti, ad esempio per l’ekiden di Hakone, il 2 e 3 gennaio, il più grande evento sportivo del Paese. E dire che è riservata soltanto alle squadre universitarie della zona di Kanto, intorno a Tokyo. Poi ci sono le ekiden aziendali, le amatoriali e anche quelle che si svolgono nei parchi. Una vera ossessione, pare. Si ispira ai monaci maratoneti, sacerdoti eremiti che corrono mille maratone in mille giorni per raggiungere l’illuminazione.  Solo 46 negli ultimi cent’anni sono riusciti a portare a termine l’impresa.

Oggi l’ekiden raggiunge livelli di competizione altissima tra le varie squadre. Da queste competizioni emergono atleti di talento incredibile e con risultati sbalorditivi. Atleti pagati molto bene dalle aziende che incarnano lo spirito di responsabilità, fedeltà e solidarietà.

Per me l’ekiden è stato soprattutto correre in squadra. Quel giorno in staffetta ho vissuto qualcosa di simile all’emozione che provavo da piccola durante le vacanze estive, quando con gli amici si tentavano imprese avventurose e si condivideva la paura e il segreto di aver fatto spesso qualcosa di non autorizzato. Ciò che rendeva quei pomeriggi unici non era tanto l’obiettivo raggiunto, spesso lo si dimenticava con il passare delle ore, ma la gioia e l’agitazione di aver vissuto qualcosa al di fuori dall’ordinario. Di essere stati complici e uniti per qualcosa di eroico. La forza dell’immaginario e quella dello stare insieme agli altri. In quelle calde giornate estive ricordo l’entusiasmo di poter giocare all’aperto per ore. E poi le paure da sconfiggere, le insicurezze, l’incertezza di non essere capace. Il gioco piano a piano prendeva forma e tutto quel carico di sentimenti contrastanti sembrava sospeso per qualche ora. Il significato simbolico di alcune azioni ci faceva sentire meglio.

Proprio come quel giorno a Milano, proprio come spesso accade nella corsa. Sospendere tutto e giocare. Alleggerire l’animo e provare a entrare in contatto con noi stessi. Lasciarsi andare. Non proprio (o non ancora) l’illuminazione ricercata dai monaci maratoneti, ma neppure quell’ossessione che rende tutto troppo brutale.

 

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